La Stampa. Tito Boeri, economista ed ex presidente dell’Inps, non condivide la battaglia che Cgil, Cisl e Uil stanno portando avanti contro il Green pass nelle mense aziendali. «Sono convinto che molti sindacalisti si sentano avviliti da questa scelta che rende il sindacato estraneo ai luoghi di lavoro. È come dire “noi non ci occupiamo della sicurezza dei lavoratori”», spiega il professore della Bocconi.
I sindacati però sostengono che è discriminatorio dividere i lavoratori e spetta al governo intervenire per legge.
«Vuol dire abdicare al proprio ruolo. È una materia che va lasciata alla contrattazione collettiva. Secondo alcuni studi, in Italia il 50 per cento dei lavori può essere svolto a distanza o comunque con interazioni molto limitate tra colleghi e utenti. Il restante 50 per cento, invece, è a rischio e può essere messo in condizioni di relativa sicurezza, aumentando il distanziamento sul posto di lavoro, organizzandosi in turni e trovando modi per svolgere alcune funzioni in remoto. Ma una legge non può normare tutti questi casi, e poi ci vuole qualcuno che la faccia applicare. È compito dei datori di lavoro e dei rappresentanti dei lavoratori stabilire che, laddove non sia obiettivamente possibile lavorare in sicurezza, bisogna imporre l’obbligo di vaccinazione. È quanto peraltro avviene in molti altri Paesi».
Nel protocollo di sicurezza a scuola il costo dei tamponi per i professori non vaccinati è a carico degli istituti scolastici. Cosa ne pensa?
«Abbiamo l’obbligo di far ripartire la scuola in presenza. I danni legati alla chiusura delle scuole sono enormi e hanno colpito soprattutto gli studenti di famiglie meno abbienti. Per questo il ruolo del docente è uno di quelli per cui è necessario essere vaccinati. Non c’è alternativa all’obbligo. E se ci sono risorse per i tamponi gratuiti, questi vanno garantiti temporaneamente agli studenti che non hanno sin qui avuto la possibilità di vaccinarsi. Tranne poche eccezioni, chi tra i docenti si trova scoperto è perché non ha voluto fare il vaccino, non perché non poteva».
Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, in un’intervista a questo giornale, ha espresso il timore che i partiti, ora che è iniziato il semestre bianco, frenino il percorso delle riforme. Vede questo rischio?
«Gli ostacoli alle riforme sono tanti con o senza semestre bianco. Ma vedo nel presidente Draghi la giusta determinazione. E il Pnrr è un potente strumento di convinzione anche per maggioranze tutt’altro che coese. Ciò detto, bisogna ancora partire con le riforme. Quella della giustizia penale rimarrà sulla carta fin quando non si riorganizzerà il lavoro dei Tribunali nelle realtà più difficili. La riforma della Pubblica amministrazione è partita col piede sbagliato con concorsi riservati agli interni e non ai tanti bravi giovani residenti in Italia e all’estero».
La riforma degli ammortizzatori sociali è in ritardo, il problema sono le risorse?
«È la riforma maggiormente annunciata, doveva essere presentata a marzo, ma è la più nebulosa. Sembra l’araba fenice: tutti ne parlano ma nessuno ha visto l’articolato. Il problema a mio giudizio non sono le risorse, ma il fatto che si continui a non capire che per proteggere i lavoratori bisogna gestire in modo integrato cassa integrazione, Naspi e politiche attive del lavoro. Bisogna evitare i licenziamenti in caso di crisi temporanee e facilitare la ricollocazione dei lavoratori, in caso di crisi strutturali, offrendo un paracadute a chi non ce la fa. È la lezione che si impara dai Paesi che hanno maggiore esperienza in questo campo. E che noi continuiamo ad ignorare».
Sul reddito di cittadinanza la politica è divisa. Qual è la sua idea?
«Sono d’accordo con Draghi: è giusto il concetto, il principio del reddito di cittadinanza, non il modo con cui è stato declinato. Ci vuole uno strumento universale e selettivo di contrasto alla povertà. Il reddito di cittadinanza oggi ha dei difetti di progettazione che fanno sì che non raggiunga molti poveri e scoraggi dalla ricerca di lavoro chi lo riceve, soprattutto al Sud. Questi problemi vanno affrontati e risolti».
In autunno si aspetta un’ondata di licenziamenti?
«In questo momento sono più preoccupato delle assunzioni. I dati disponibili su luglio dimostrano che per i settori interessati dallo sblocco dei licenziamenti siamo in linea con la situazione precedente al Covid. In Veneto c’è stato un solo licenziamento collettivo di circa 90 persone. Le imprese industriali avevano del resto già licenziato non rinnovando i contratti a termine, chiudendo i battenti o utilizzando i licenziamenti disciplinari. Le assunzioni con contratti a tempo indeterminato sono invece al palo, l’occupazione cresce molto meno del reddito nazionale, la disoccupazione giovanile rimane al 30%. Ma di questo nessuno sembra interessarsi. Tutta l’attenzione è sui licenziamenti e nessuno parla di come stimolare le assunzioni e la nascita di nuove imprese».
Possibile che non si riesca a fermare la scia di sangue delle morti sul lavoro? Di chi è la responsabilità?
«Come sempre non c’è un’unica causa. L’Ispettorato nazionale del lavoro è un ircocervo che ha indebolito le attività di ispezione. Il lavoro nero non verrà mai debellato senza avere ispettori che possano lavorare sotto la guida di banche dati come quelle gestite dall’Inps e senza affrontare davvero le illegalità diffuse in agricoltura. Si continua a incentivare il settore delle costruzioni che ha un tasso di incidenti nettamente superiore alla media. In tutti i posti di lavoro ci dovrebbero essere rappresentanti per la sicurezza. Il fatto che il sindacato si chiami fuori dal gestire il problema dei contagi sul posto di lavoro non è un bel segnale. Anche le centinaia di vittime segnalate dall’Inail e legate al contagio sono morti bianche»