di Sergio Rizzo. Fra i Comuni italiani, quanto a inefficienza, c’è sicuramente di peggio. Caserta, per esempio, non teme rivali: spende il 40,9% in più di quanto dovrebbe. Idem Reggio Calabria (40,5%) e Rieti (39,5%). Ma a fare davvero impressione, nel caso di Roma, sono le dimensioni del costo che i cittadini romani sopportano ogni anno a causa del malfunzionamento dei servizi pubblici e della burocrazia municipale. Parliamo di 584 milioni e 688 mila euro. A tanto ammonta il divario fra la spesa reale del Comune di Roma e il suo fabbisogno standard, come ci ricorda oggi un dossier dell’ufficio studi della Confartigianato.
I dati sono relativi all’anno 2013, ma se da allora è cambiato ben poco per quanto riguarda la spesa, ancor meno è successo sul fronte della qualità dei servizi. Osserva Beppe Grillo che la città «avrebbe bisogno di finanziamenti» come le altre capitali europee, riconoscendo «che Parigi e Londra vengono considerate come capitali, mentre Roma no». E ha ragione. Resta il fatto che pure i soldi che arrivano vengono spesi assai male. Secondo lo studio della Confartigianato Roma appartiene infatti a quella categoria di Comuni italiani considerati tecnicamente inefficienti. Sono il 20% del totale, ma assorbono il 30% della spesa comunale complessiva. Si tratta di quegli enti locali che offrono meno servizi della media e di scadente qualità ma costano più del cosiddetto «fabbisogno standard». Di che cosa si tratta? È il volume di spesa considerato ottimale per ogni Comune sulla base di alcuni parametri oggettivi: dalle dimensioni (territorio e popolazione) al livello dei servizi pubblici (scuole, trasporti, smaltimento dei rifiuti, cultura…). L’applicazione dei fabbisogni standard per il finanziamento dei Comuni in luogo del vecchio metodo della spesa storica era prevista dalla legge sul federalismo fiscale di sei anni fa. Ma il meccanismo non è mai entrato concretamente a regime: dal 2011 sono piovuti su quelle norme ben 16 decreti e ricorsi a raffica. Con il risultato che oggi, contrariamente a quanto previsto dalla legge, i fabbisogni standard non vengono nemmeno più pubblicati sulla Gazzetta ufficiale. E tanta polvere continua a finire sotto il tappeto. Cominciando proprio da Roma. Basta pensare che oltre un terzo degli sprechi di tutti i 23 Comuni ritenuti inefficienti, calcolati in un miliardo e 598 milioni, è imputabile alla Capitale: dove la differenza fra spesa effettiva e fabbisogno standard è del 18,3%. Sotto accusa soprattutto i trasporti, la gestione dei rifiuti e il funzionamento dell’amministrazione.
All’opposto, nel gruppo dei capoluoghi di provincia giudicati efficienti perché costano meno rispetto al loro fabbisogno standard pur offrendo più servizi e migliori della media, c’è sempre Milano. Qui si risparmiano ogni anno 139 milioni e 760 mila euro, l’8,8%. E se c’è chi riesce a fare ancora meglio, come Vicenza (28,9%), Ascoli Piceno (15,2%), Monza (13%), Bergamo (12,1%), Verona (10,2%), Verbania (9,8%), Parma (9,1%) e Treviso (8,9%), il volume dei risparmi milanesi è di gran lunga il maggiore. Da notare che i capoluoghi efficienti sono soltanto 21, meno di un quinto del totale: e fra questi l’unico meridionale è Andria. Dove ogni anno si risparmiano 2,4 milioni.
Non sarebbe però generoso sostenere che tutte le altre città del Mezzogiorno spendono più di quanto sarebbe necessario. Per dirne una, a Napoli la spesa è di ben 135 milioni inferiore al fabbisogno standard. Ma soltanto perché il Comune offre ai suoi cittadini servizi limitati e di non migliore qualità. Il capoluogo campano appartiene a una terza categoria, quella dei Comuni che costano meno perché danno meno. Categoria che comprende 24 città fra cui diversi centri meridionali, come Campobasso, Bari, Barletta, Matera, Teramo, Pescara, Crotone e Cosenza. Niente a che vedere con i Comuni che invece spendono più di quanto dovrebbero, ma grazie al fatto che offrono maggiori servizi rispetto alla media. Ed è questa una quarta categoria che conta 24 municipalità, nella quale figurano prevalentemente città del centro nord. Come Venezia, Pisa, Piacenza, Mantova, Ferrara, Forlì, Brescia, Asti, Lecco, Perugia, Lodi e Padova. Non senza le eccezioni di Brindisi e Salerno.
«Difficile parlare di ripresa e competitività in un’Italia a quattro diverse velocità, in cui prevalgono le amministrazioni che scaricano su cittadini e imprese i costi di una cattiva gestione», commenta il presidente della Confartigianato Giorgio Merletti. Sottolineando «il margine» esistente nei bilanci dei Comuni «per migliorare i servizi» talvolta pessimi. E proprio sulla qualità della spesa, il dossier argomenta che nei Comuni continuano a salire le spese per la burocrazia (3,9% nel 2016) e a scendere quelle per il settore sociale (-6,6%), l’ambiente (-1,4%) e l’istruzione (-0,8%). Mentre negli ultimi cinque anni le tariffe dei servizi locali sono salite del 15,9%: il quadruplo dell’inflazione.
Quanto pesi su costi eccessivi e inefficienze comunali il magma delle società partecipate è da tempo sotto gli occhi di tutti, senza che però finora si sia riusciti a mettervi seriamente mano. Le varie leggi che imponevano piani di riassetto sono rimaste lettera morta e anche la riforma Madia è ancora al palo. La conseguenza è che oggi due terzi (il 65,3%) delle circa 8 mila società pubbliche non gestiscono servizi pubblici. E ben 1.085 non hanno neppure un addetto, ma solo poltrone per amministratori.
IL Corriere della Sera – 23 febbraio 2017
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