Aumentano, con la costante carenza di personale, le segnalazioni di demansionamento nella categoria sanitaria. Con l’aiuto di un avvocato vediamo cos’è il demansionamento, come si configura sul posto di lavoro e cosa si può fare in proposito
Secondo il 19esimo Rapporto CREA Sanità, al 2023 l’Italia soffre una carenza di 54 mila medici e 60 mila infermieri. Cifre che di anno in anno oscillano, ma non migliorano mai sensibilmente, finendo per diventare l’ennesima “cronicità” del Sistema sanitario nazionale. Questo gap di professionalità a tutti i livelli produce una situazione di “straordinario” continuativa e logorante, che costringe spesso chi lavora a ricoprire incarichi e mansioni ben lontane dalle proprie.
Un fenomeno che ai legali è noto come “demansionamento” e che vede la categoria dei lavoratori in sanità tra le principali vittime. Con questo termine, in gergo legale, si definisce l’assegnazione del lavoratore a compiti e mansioni comprese in un livello di inquadramento inferiore rispetto a quello contenuto nel proprio contratto di lavoro individuale.
“I sanitari, sia medici che infermieri, vengono spesso chiamati a supplire deficienze strutturali svolgendo mansioni incompatibili con il loro livello professionale. È un problema molto sentito sia nel settore pubblico che privato”, lo conferma l’avvocato Francesco Del Rio, che per Consulcesi & Partners ha raccolto diverse segnalazioni dal mondo sanitario.
Ai medici, in situazione di carenza o bisogno, capita che venga chiesto di supplire a mansioni più propriamente infermieristiche, come prelievi o somministrazioni di farmaci. Ancora più spesso, agli infermieri viene richiesto di svolgere compiti propri degli OSS, come pulizie, disinfezione e gestione dell’igiene del paziente. Casistiche che spesso finiscono per prolungarsi e, da emergenziali, diventano standard.
Demansionamento: una panoramica legale
Nella normativa italiana, il lavoratore è tutelato nelle sue mansioni dall’articolo 2103 del Codice Civile, che prevede che al lavoratore siano assegnate le mansioni per cui è stato assunto e descritte nel suo inquadramento da contratto di lavoro. Principio ribadito, nell’ambito del pubblico impiego, nell’articolo 52 del D.Lgs. 165/2001 che ricorda: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure concorsuali o selettive”.
“Dietro ad entrambi questi riferimenti normativi c’è l’intenzione del legislatore di tutelare dignità e professionalità del lavoratore con un presidio rafforzato dall’inderogabilità della norma”, spiega l’avvocato.
Demansionamento legittimo
Il demansionamento è dunque sempre contestabile per vie legali? In realtà, ci spiega l’esperto, con il Jobs Act del 2016 si è configurato un sistema lavorativo più “elastico”, che ha delineato anche situazioni di demansionamento legittimo.
“I casi sono fondamentalmente tre – spiega l’avv. Del Rio – il primo prevede una variazione degli assetti organizzativi aziendali che fornisce giustificato motivo e incide sulla posizione del lavoratore; il secondo vede il caso in cui il passaggio a mansioni inferiori sia previsto dal contratto collettivo; il terzo considera una modifica contrattuale stabilita in sede protetta e che risponde ad una esigenza del lavoratore come conservazione del posto, nuove competenze o miglioramento delle condizioni di vita”. Resta obbligatorio per il datore di lavoro formalizzare per iscritto al lavoratore le modifiche e, se necessario, provvedere alla sua formazione. Non possono, inoltre, essere previste modifiche nella retribuzione al ribasso.
Demansionamento illegittimo
In altri casi ci si trova, ed è quello che accade ai sanitari, di fronte a un demansionamento illegittimo. Come si agisce in questa eventualità? “Di recente – spiega l’avvocato – la Cassazione ha affermato che, nel pubblico impiego, è onere del lavoratore allegare le mansioni effettivamente svolte, il comparto di appartenenza e il proprio livello di inquadramento, mentre è dovere del giudice porre a raffronto tali elementi con la contrattazione applicabile”.
Il danno professionale da demansionamento si può articolare poi come patrimoniale, cioè perdita economica dovuta alla mortificazione della capacità professionale e danno da perdita di chance per il lavoratore; ma anche come danno non patrimoniale, come danni alla dignità e all’immagine, oppure alla salute.
“È importante fornire delle prove solide – conferma l’avvocato – in quanto il danno da demansionamento non è automatico e la sua prova può essere data con allegazione di presunzioni precise, gravi e concordati su qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità rivestita, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione ed i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone”.
In sede di processo sarà poi il datore di lavoro a dover dare prova che il demansionamento fosse giustificato. Infine, al giudice spetta verificare il danno in concreto, individuandone la natura e l’ammontare del ristoro economico. “Il giudice, se riconosciuto il demansionamento, dovrà anche ordinare il ripristino della situazione lavorativa preesistente”, conclude l’avvocato.
Gloria Frezza