Quante parole servono per esprimere una regola? E quante regole servono per disciplinare l’universo? A giudicare dall’esperienza che andiamo maturando noi italiani, parole e regole non sono mai abbastanza. E il 2016 che abbiamo ormai alle spalle è stato forse l’anno più prolifico della nostra storia nazionale. Come d’altronde mostra la sua creatura maggiore, benché abortita poi dagli elettori: la riforma costituzionale. Dove campeggiava, a mo’ di gonfalone, il nuovo articolo 70: 430 vocaboli, al posto delle nove smilze parolette dettate dai costituenti.
Con un labirinto di rinvii, di citazioni, di riferimenti ad altre norme della Costituzione. Sicché, ove quella riforma fosse entrata in vigore, il Senato avrebbe conservato la potestà legislativa «per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma». Più che una norma, una rubrica telefonica.
Questo stile parossistico, questa stessa incontinenza semantica e verbale tracima da tutta la legislazione che ci ha inondato l’anno scorso. Noi, per lo più, non ci facciamo caso, non avviciniamo il nostro sguardo alla lingua del diritto. Sappiamo di questa o quella legge perché ne parlano i giornali o la tv, perché ci ronzano in testa le polemiche fra maggioranza e opposizione, non per averne letto il testo inforcando un paio d’occhiali. Dovremmo farlo, invece, almeno qualche volta. Dopotutto, nessuno s’azzarderebbe a esprimere giudizi su un quadro o su un romanzo soltanto per sentito dire. E dopotutto le leggi non riguardano unicamente gli addetti ai lavori, così come l’arte non appartiene ai critici d’arte. Entrambe sono destinate al pubblico, e siamo noi, il pubblico.
A immergere lo sguardo nell’oceano delle Gazzette ufficiali, scopriremmo così che la legge sulle unioni civili — forse la più lieta novella del 2016 — s’articola in un solo articolo di 69 commi, è insomma disarticolata, o meglio inarticolata, un po’ come nella trilogia di Samuel Beckett, dove ogni frase corre per pagine intere. Verremmo a sapere che il decreto sulla semplificazione degli enti di ricerca (n. 218 del 2016) semplifica aggiungendo al comma 515 sancito chissà dove un comma 515 bis, rivolto alle « amministrazioni pubbliche di cui al comma 510 » . Finiremmo poi per inciampare nel nuovo Codice degli appalti (decreto legislativo n. 50 del 2016) dove s’addensano 181 errori nei suoi 220 articoli, come ha denunziato Gianantonio Stella. Infine sbatteremmo il muso contro la legge sui disabili ( n. 112 del 2016), ornata d’un periodo che infila sette genitivi sulle gengive del lettore: «nelle more del completamento del procedimento di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 13 del decreto…».
Se si dovessero studiare tutte le leggi, non rimarrebbe il tempo di trasgredirle, diceva Goethe. Anche volendo, però, è ormai diventato impossibile studiarle, giacché è impossibile capirle. Le prove? Basta rileggerne insieme qualche brano, pescando fra le novità legislative più celebrate del 2016. Per esempio, l’abolizione di Equitalia (articolo 1 del decreto legge n. 193 del 2016): « Dalla data di cui al comma 1, l’esercizio delle funzioni relative alla riscossione nazionale, di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto- legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, è attribuito all’Agenzia delle entrate di cui all’articolo 62 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, ed è svolto dall’ente strumentale di cui al comma 3».
Oppure la riforma delle partecipate ( articolo 24 del decreto legislativo n. 175 del 2016): « Le partecipazioni detenute, direttamente o indirettamente, dalle amministrazioni pubbliche alla data di entrata in vigore del presente decreto in società non riconducibili ad alcuna delle categorie di cui all’articolo 4, commi 1, 2 e 3, ovvero che non soddisfano i requisiti di cui all’articolo 5, commi 1 e 2, o che ricadono in una delle ipotesi di cui all’articolo 20, comma 2, sono alienate o sono oggetto delle misure di cui all’articolo 20, commi 1 e 2».
O infine la riduzione delle camere di commercio ( articolo 4 del decreto legislativo n. 219 del 2016): « Al fine di contemperare l’esigenza di garantire la sostenibilità finanziaria anche con riguardo ai progetti in corso per la promozione dell’attività economica all’estero e il mantenimento dei livelli occupazionali con l’esigenza di riduzione degli oneri per diritto annuale di cui all’articolo 28, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, le variazioni del diritto annuale conseguenti alla rideterminazione annuale del fabbisogno di cui all’articolo 18, commi 4 e 5, della legge 29 dicembre 1993, n. 580, valutate in termini medi ponderati, devono comunque garantire la riduzione dei relativi importi del 40 per cento per il 2016 e del 50 per cento a decorrere dal 2017 rispetto a quelli vigenti nel 2014».
Questo demone nomenclatore non rende le nostre leggi più precise; semmai le rende incomprensibili, dunque sommamente imprecise. La precisione, in una norma, risiede nella sua chiarezza espositiva. E la chiarezza del diritto può anche sfiorare, perché no?, l’eleganza letteraria. Non a caso Stendhal diceva d’ispirarsi al code Napoléon, per trarne ritmo ed eleganza narrativa. E non a caso Terracini, nel 1947, chiese a tre letterati d’alleggerire la Costituzione, di renderla più sobria, più aggraziata, prima che l’Assemblea costituente l’approvasse. D’altronde diritto e letteratura sono ufficialmente uniti in matrimonio dal 1973, da quando la pubblicazione di The Legal Imagination di J.B. White battezzò il Law and Literature Movement. E non si contano gli illustri personaggi che furono insieme giuristi e letterati, da Cicerone a Francis Bacon, che arrivò a trasformare un suo scritto giuridico in un saggio letterario ( Dell’usura, 1625). Senza dire di Giambattista Vico, che nella Scienza nuova ( 1725) introdusse il concetto di «giurisprudenza poetica», riconoscendo nella poesia un connotato dell’antica giurisprudenza.
No, non dipende dal diritto, dai suoi vocabolari, il timbro delirante di queste ultime leggi. La loro oscurità deriva piuttosto da una crisi morale, che nel 2016 ha continuato ad aggravarsi. Perché la corruzione s’estende poi al linguaggio, perché attraverso le parole risuonano le cose. L’estetica comprende in se stessa l’etica, lo dice per l’appunto la parola. E noi rischiamo di perdere entrambe le parole, entrambe le cose.
Repubblica – 8 gennaio 2017