In uno scenario previdenziale in evoluzione e ancora soggetto a interventi correttivi dopo la riforma di fine 2011, la mappa delle prestazioni Inps offre un quadro disomogeneo, con una concentrazione degli assegni nelle province del Nord economicamente più avanzate e gli importi più alti alle realtà di maggiori dimensioni. Sulle pensioni il dibattito è sempre aperto, così come sulle misure necessarie per completare il percorso – avviato con la riforma Fornero – per la messa in sicurezza del sistema previdenziale. Si torna a ventilare l’ipotesi di un contributo di solidarietà sugli assegni più alti (3,5-4mila euro) da inserire nella prossima legge di Stabilità, si lavora sull’opportunità di includere anche i pensionati tra i beneficiari del bonus Irpef di 80 euro. Il servizio del Sole 24 Ore con le tabelle
Si cercano nuove strade per allargare la platea dei salvaguardati e reinserire categorie di lavoratori esclusi, allentando i requisiti fissati con il primo intervento del 2011.
Il quadro
E se la spesa pensionistica oggi si attesta al 16,3% del Pil (avendo scongiurato il rischio che si superasse il 18%) per un importo complessivo Ivs di 170 miliardi (190 incluse le prestazioni assistenziali), è anche vero che le prestazioni vigenti sono circa 14,5 milioni (oltre 18 compresi autonomi e altre gestioni) e che il rapporto tra contribuenti e pensioni si è ridotto da 129,1 a 126,4 dal 2012 al 2013.
Intanto si prevedono assegni meno ricchi con un costante calo dei tassi di sostituzione (effetto dell’innalzamento del requisito anagrafico, del passaggio al sistema contributivo ma anche della congiuntura economica) e da più parti – tra le ultime voci che si sono levate, quella del commissario straordinario dell’Inps Vittorio Conti, in occasione della Relazione annuale a Montecitorio – si sottolinea la necessità di un rilancio delle adesioni alla previdenza complementare.
Bilancio
A fronte di questa situazione in continua evoluzione e da tenere sotto controllo è comunque possibile fare un primo bilancio sull’andamento e la distribuzione territoriale degli assegni pensionistici da prima a dopo la riforma.
Secondo le elaborazioni effettuate dal Sole 24 Ore sugli ultimi dati Inps, le anzianità (ora sostituite dalla “anticipata”) sono passate dai 2,7 milioni del 2003 ai circa 4 milioni attuali, quasi raddoppiando in poco più di dieci anni, ma salendo solo del il 4,4% nell’ultimo triennio. Gli assegni di vecchiaia (i più numerosi) si mantengono da anni intorno ai 5 milioni, con un incremento inferiore al 2% dal 2003 ad oggi, ma segnando addirittura un calo dell’1,1% dal 2011 al 2013. In ridimensionamento anche i prepensionamenti: oggi sono circa 295mila mentre nel 2003 sfioravano quota 400mila (-25%), con una diminuzione del 7% nell’ultimo triennio.
Quanto agli importi, i più elevati si individuano nel segmento anzianità/anticipata e nei prepensionamenti (1.500 euro al mese la media segnalata dall’Osservatorio Inps) mentre la vecchiaia si aggira sui 670 euro, per una media totale di circa 1.100 euro.
Sul territorio
Più articolato il quadro territoriale delle pensioni (che, si ricorda, non corrispondono ai soggetti percettori, ma al numero di assegni erogati dell’Inps).
A livello complessivo si nota che nelle province del Nord e del Centro Nord le prestazioni “coprono” da un quarto a un quinto della popolazione, a fronte di una media pari al 16%: ai massimi si trovano realtà di media grandezza, come Biella, Ancona, Ferrara (con un rapporto assegni/residenti intorno al 25%) e nella top ten si contano cinque piemontesi. Ben posizionate le realtà di maggiori dimensioni, come Torino, Bologna e Milano (sul 21%).
Tutta appannaggio delle province meridionali la coda della graduatoria, dove Napoli è ultima con il 7,6% mentre altre dieci realtà del Sud (tra cui sette siciliane) non arrivano al 10% nell’incidenza delle pensioni sulla popolazione. Un divario, quello dello scenario post-lavorativo, che non poteva non rispecchiare quello economico-occupazionale.
Anche nelle classifiche che danno lo spaccato territoriale della «Vecchiaia» e della «Anzianità» si osserva un’analoga ripartizione: le pensioni di vecchiaia sono diffuse nel 9% della popolazione italiana, ma la percentuale supera il 15% ad Ancona (seguita da Imperia, Trieste, Savona e Alessandria) e scende intorno al 5% a Napoli e in tre siciliane (Siracusa, Catania, Caltanissetta).
Biella, con il 15,4%, seguita da Ferrara e tre piemontesi spicca nelle anzianità, mentre qui è Crotone a scivolare all’ultimo posto preceduta da Napoli, entrambe sul 2,2%, indice pari a un terzo rispetto alla media Italia (6,7%).
Roma – che per “densità” si colloca sotto la media in tutte le tre classifiche – per gli importi occupa invece il primo posto, seguita da Milano: entrambe con circa 1.400 euro al mese nella classifica «Pensioni totali» e oltre 2.000 nelle «Anzianità». Napoli si prende una rivincita salendo sul podio nella categoria «Vecchiaia», dopo la solita coppia. Ma anche negli importi resta ampio il divario tra Nord e Sud, con Catanzaro fanalino di coda nelle classifiche «Totale» e «Anzianità» e la sorpresa di Ancona ultima nella «Vecchiaia».
Il commento. La previdenza «difettosa» degli italiani
La riforma contributiva, in vigore dal 1?gennaio 1996, si concesse tempi di attuazione molto lunghi, esentando i lavoratori “senior”, con anzianità contributive di almeno 18 anni. Ciò spiega perché la componente contributiva della spesa è tuttora trascurabile. Espiega anche il generale disinteresse per le malformazioni congenite che differenziano il contributivo italiano dal “modello scandinavo”, internazionalmente riconosciuto come prototipo eccellente. Lo scenario è cambiato dopo che la riforma Fornero ha cancellato il privilegio dei senior: dal 2012 i contributi di tutti i lavoratori generano pensioni, o quote, contributive. Lariforma ha anche ripristinato la flessibilità di pensionamento, fra 63 anni e 3 mesi e 70 anni e 3 mesi, che il governo Dini aveva reclamizzato per attrarre il Paese verso la scelta contributiva, ma che si era poi perduta con gli interventi peggiorativi degli anni 2000.
Le malformazioni del sistema, però, restano così tante da non trovare spazio in un articolo. Accennerò a due soltanto. La prima riguarda l’aggiornamento dei coefficienti che nel modello scandinavo, dove non esiste la pensione d’anzianità e si può andare in pensione fra 60e67anni, è regolato dal protocollo seguente: 1) in ogni anno solare entrano in vigore nuovi coefficienti riservati alla coorte che compie 60 anni nello stesso anno; 2) i medesimi non sono retroattivi, nel senso che le coorti precedenti mantengono il diritto ai coefficienti loro assegnati in passato con analoga procedura. In ogni momento è quindi in vigore una matrice di coefficienti, ciascuna riga della quale è intestata a una delle coorti in età di pensione. Il protocollo è corretto perché i coefficienti devono dipendere dalla longevità e quest’ultima dipende dalla coorte di appartenenza (anno di nascita).
I limiti dei coefficienti retroattivi. Il meccanismo italiano, che è retroattivo e, a regime, sarà biennale, produce inconvenienti di tre tipi.
In primo luogo, espropria i lavoratori di un diritto maturato: dopo l’aggiornamento, i contributi versati primapossono generare pensione in misura inferiore. L’esproprio collide con l’orientamento costante della Corte Costituzionale a tutelare i diritti acquisiti.
In secondo luogo, la retroattività impedisce ai lavoratori di programmare il futuro con certezza. Infatti, vanifica, in misura sconosciuta ex ante, la scelta di accrescere la pensione proseguendo l’attività lavorativa oltre la maturazione del diritto. Potrebbe perfino produrre effetti opposti se, con crescite rapide della sopravvivenza, il coefficiente applicabile dovesse percentualmente ridursi più di quanto il montante contributivo possa aumentare. Allora è probabile che i lavoratori vogliano evitare il rischio traducendo la vigilia di ogni aggiornamento in un formidabile esodo di massa.
In ultimo luogo, l’aggiornamento retroattivo imputa longevità (tavole di sopravvivenza) diverse ai membri di una stessa coorte, con ciò generando disparità intra generazionali lesive del principio di uguaglianza costituzionalmente garantito. A tal riguardo, la pensione di anzianità (sopravvissuta alla riforma Fornero sotto mentite spoglie) impedisce la definizione esplicita di un’età pensionabile minima. Tuttavia, è stimabile che, per ogni coorte, la finestra delle età pensionabili si apra a 57,5 anni, ottenuti sommando l’obbligo scolastico di 15 al requisito contributivo di 42,5 richiesto alle donne per accedere alla (diversamente nominata) pensione di anzianità. Poiché la finestra si chiude a 70anni e 3 mesi, ogni coorte andrà in pensione in un arco di circa 13 anni solari, durante i quali i coefficienti saranno mediamente cambiati per oltre sei volte. Perciò altrettanto numerose saranno le longevità imputate a una stessa coorte.
L’indicizzazione. La seconda malformazione congenita riguarda l’indicizzazione. Si ricordi che il sistema contributivo opera alla stregua di una banca virtuale intestando a ogni lavoratore un conto corrente su cui depositare i contributi e prelevare poi le rate di pensione. Il conto è fruttifero in ragione di un tasso d’interesse sostenibile che l’Italia ha identificato nella crescita del Pil, talché i prelievi possono superare i depositi. Gli interessi accreditati agli attivi restano sui conti maturandone altri per concorrere infine alla formazione dei montanti contributivi. Quelli accreditati ai pensionati, sulle giacenze che restano dopo le rate annue già prelevate, sono invece la risorsa deputata a finanziare l’indicizzazione delle rate stesse. Ecco perché il modello contributivo deve annualmente indicizzare le rate in base all’interesse sostenibile contestualmente accreditato agli attivi.
Mail modello è duttile al punto da consentire che, al pensionamento, sia anticipata una parte dell’interesse maturando. Evitando dettagli tecnici, l’anticipazione prende le ‘sembianze’ di una maggiorazione dei coefficienti di trasformazione. Poiché gli interessi non sono pagabili due volte, all’anticipazione dovrà fare riscontro un’indicizzazione commisurata alla sola parte residua dell’interesse maturando. In pratica, l’intera manovra serve ad appiattire il profilo temporale del vitalizio aumentandone la rata iniziale a scapito di quella finale.
La Svezia scelse di anticipare l’1,6% e perciò di indicizzare le pensioni contributive in base alla parte residua dell’interesse maturando. Per evitare differenze difficilmente gestibili sul piano sociale, la medesima indicizzazione fu estesa alle pensioni retributive finché esisteranno. Nel biennio 2010-2011, la crisi economica ha schiacciato l’interesse sostenibile fin sotto l’1,6% infliggendo alle pensioni svedesi una dura indicizzazione negativa, cioè un abbattimento nominale. La disciplina contributiva è stata tollerata in un Paese che, nel 1998, l’aveva scelta dopo una riflessione di sei anni. Allertata dal caso svedese, la Norvegia ha successivamente scelto di anticipare solo lo 0,75%. Come la Svezia, l’Italia ha scelto un’anticipazione importante dell’1,5% masi è paradossalmente dimenticata di adottare un’indicizzazione coerente. Se l’avesse fatto, non ci sarebbe stato bisogno, dal 1995, degli interventi “manuali” di sospensione o attenuazione dell’indicizzazione ai prezzi.
Dopo le contraddittorie riforme degli ultimi anni, non si avverte il bisogno di metterne in campo di nuove. Ma la posta in gioco è elevata: occorre salvare il sistema contributivo italiano prima di vederne la fragile architettura sgretolarsi sotto il peso delle sue incongruenze.
Il Sole 24 Ore – 28 luglio 2014