Gregorio, 24 anni, guarda il cielo sopra le campagne di Gattatico (Re) e scuote la testa riccia.
«Guarda laggiù, nuvole da temporale. Di sicuro però qui non arrivano. In questo posto non piove mai». È un lunedì mattina di marzo e fra le campagne di Parma e Reggio il termometro segna 22 gradi. I terreni della sua famiglia, una cinquantina di ettari per produrre pomodori industriali, sono a secco, meno 50% di pioggia rispetto alla media.
«Ormai per coltivare dobbiamo tirare i dadi» dice Gregorio, col fratello Luca, 21 anni, ultimi eredi dell’azienda agricola famigliare Bosco. Come loro, nel cuore della Food Valley, centinaia di piccole imprese soffrono per il clima che cambia. Non ci sono più certezze.
«Fino a qualche anno sapevi cosa aspettarti dalle stagioni» racconta il padre, Fausto, sei figli e una vita a zappare. «Ora o non piove mai, nemmeno d’inverno, o arrivano le bombe d’acqua a fare disastri».
Quello del pomodoro, coltivato soprattutto fra le campagne di Parma e Piacenza, è un comparto che senza acqua fa fatica. «Anche il 30% di produzione in meno se la siccità continua» spiega la Coldiretti.
Ai problemi indotti dalla siccità si aggiungono le temperature elevate che cambiano i cicli delle coltivazioni. «Per noi che lavoriamo la terra sono danni veri» spiegano i due ragazzi.
«Per fortuna la gente si sta accorgendo del cambiamento climatico: le manifestazioni degli studenti (come il “FridaysForFuture” del 15 marzo,ndr) sono importanti. È ora che i politici si attivino sui nostri problemi».
Per anni gli interi cicli delle fattorie, come quella di Luca Cotti a Pilastro (Parma), si sono basate proprio sulla garanzia di piogge abbondanti in inverno e nevi sulle montagne. «Adesso però non ci sono più e rischiamo di ritrovarci in ginocchio». La sua azienda coltiva pomodori e produce il gioiello della zona, il Parmigiano-Reggiano. «Acqua per noi significa foraggio: fieno per le nostre 90 mucche. Senza è un bel problema: il fieno — visto che facciamo formaggio Dop — deve arrivare da queste terre.
Ma se non cresce che si fa?».
Dice che la stagione, come per altri suoi colleghi soci della Coldiretti, è partita malissimo.
Con balloni di fieno di scarsa qualità «stai sicuro che produci il 10% di latte in meno», le temperature elevate «fanno soffrire le mucche» e gli insetti «sempre meno rispetto al passato, sono più forti. Il ragnetto rosso che attacca i pomodori è indomabile, il pesticida non basta più».
Poi c’è il problema dei prati.
Quelli “stabili” intorno all’azienda Grana d’Oro di Cavriago diventano più fragili.
«Per noi sono oro, perché le nostre 280 vacche rosse con cui facciamo il parmigiano per via della disciplinare sul nostro prodotto Dop possono mangiare solo l’erba fresca» spiega Luciana Pedroni, a guida della fattoria. «Se non piove è un guaio, qui non abbiamo invasi.
Andando avanti così fra qualche anno il Parmigiano Reggiano scarseggerà». Per lei la strada da percorrere è «proteggere la biodiversità come facciamo noi. Anche io sono con i ragazzi che scenderanno in piazza il 15 marzo. Serve una nuova coscienza per salvare i prodotti italiani». Non solo formaggio: in Piemonte i fiori di peschi e mandorli sbocciano prima, in Puglia arranca la produzione di olio, in Veneto scarseggia il miele, in Toscana soffre il vino.
«È il caldo matto» dice Gabriele Bartoli che a Novellara coltiva angurie Igp reggiane da record.
«Da noi si piantava a fine di marzo ma da qualche anno dobbiamo anticipare perché c’è già il clima giusto per i cocomeri. Così accade che sono pronti prima, a maggio, e se fa freddo — come è accaduto l’anno scorso — nessuno se li mangia.
Mi sa che dobbiamo tornare a ingraziarci la terra, perché così è dura tirare a campare».
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