«Chi ci rimette di più se il Ttip salta? Facile: noi». Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare e ad di Inalca (Cremonini) non ha dubbi. E snocciola i dati sui 60 miliardi di export compromessi dall’italian sounding del cibo di qualità, dal Vinoncella (alias Valpolicella) al Parmesan o Reggianito del Wisconsin. «Le esportazioni “vere” del nostro settore si fermano a 29 miliardi, eppure in America, diventato il primo mercato davanti alla Germania, sono cresciute del 24% nel 2015 fino a 3,3 miliardi. Insomma c’è un potenziale enorme che il Ttip aiuterebbe a cogliere».
Non risolverebbe tutti i problemi, ma la maggior parte sì. «Nei due sensi: noi importiamo commodities agricole gravate da dazi, esportiamo prodotti ad alto valore aggiunto a loro volta con il sovrapprezzo (11,6% i formaggi per esempio) e di qui il boom del sounding. Abbattere le barriere tariffarie e non, l’obiettivo del Ttip, renderebbe il tutto più semplice e redditizio ». Sono stati fatti errori, ammette Scordamaglia, «ad esempio non aveva senso pretendere che venissero riconosciute tutte le 141 denominazioni di origine italiane, si doveva partire da una base di trattativa più realistica. Ma mandare tutto alla malora è imperdonabile». Anche perché si trascina nel dimenticatoio il trattato con il Canada, il Ceta, a un passo dalla ratifica da parte della Commissione Ue.
Ieri al question time il ministro Carlo Calenda, che si è battuto come un leone per l’approvazione del trattato, è apparso sconsolato. Si è limitato ad alcune puntualizzazioni tecniche sugli arbitrati, ma ne parlava come di un universo parallelo che non diventerà mai realtà. Eppure non solo gli alimentaristi continuano a sperare: c’è il settore delle “calzature con suole in cuoio” (cioè quelle più prestigiose del made in Italy) gravate da un dazio del 20,8% che sparirebbe, così come il 17,3% che pagano le “calzature in gomma” e anche quasi tutto il tessile-abbigliamento. Frustrate poi le ambizioni dell’industria dell’auto, delle componenti e della meccanica, dove i volumi di mercato sono potenzialmente enormi, che puntavano sull’omogeneizzazione degli standard produttivi. «È una grande opportunità persa», dice senza mezzi termini Maurizio Stirpe, presidente di Unindustria Lazio, che con la sua Psc, 3mila dipendenti, produce componenti per auto a Frosinone. «L’accordo avrebbe prodotto un grande rilancio del mercato transatlantico, che rischia di venir debellato dall’intraprendenza dell’America Latina e dell’Asia». Si potrebbe con il Ttip, dice Stirpe, anche pensare di andare a produrre in America con grosse sinergie logistiche, «se non stessimo noi europei soffocando nel tatticismo».
Gli effetti economici del Ttip sono anche confermati da una serie di rapporti. Quello redatto dal Cepr di Bruxelles per la Commissione indica un aumento del Pil tra lo 0,3% e lo 0,5% entro il 2030, con l’Italia al vertice alto della forchetta. L’istituto di ricerca Ieep, invece, in uno studio che presenterà fra pochi giorni insieme alla Commissione si concentra sull’impatto ambientale, che non sarebbe favorevole. Con l’apertura dell’area di libero scambio le emissioni di anidride carbonica all’interno dell’Unione aumenterebbero tra 2,7 e 3,6 migliaia di tonnellate per l’abbassamento dei controlli. L’import di shale gas dagli Usa incrinerebbe il ricorso alle rinnovabili. E per la salute, Ieep ritiene “giustificati” i timori che un’eventuale armonizzazione delle regole per prodotti chimici, pesticidi e cosmetici riduca la sicurezza dei consumatori europei, visto il gap di tutele tra Europa e Usa.
Repubblica – 7 luglio 2016