«Io e Adelaide l’abbiamo visto anche in autunno e quella volta eravamo a piedi. È apparso di colpo, a qualche metro da noi. Sono rimasta raggelata, nel timore e nella meraviglia. Era un esemplare grosso e in carne, forse un maschio. Ci ha fissate con gli occhi gialli e attenti. Ci stava studiando, e chissà cosa ha pensato di noi. Ha idee, il lupo? Si è allontanato calmo ed elegante lungo il bordo indistinto dell’altopiano. Poco più avanti abbiamo trovato la carcassa fresca del capriolo, le costole tutte spolpate. Intatte solo le orecchie, gli occhi cavati»
di Donatella Di Pietrantonio (Il Post)
Me lo aspettavo tutte le mattine, e non si mostrava. Mi aspettavo che comparisse affamato in quel punto più oscuro del bosco, dove il sentiero curvava tra i faggi. Veramente credevo che mi aspettasse lui, appena dopo la svolta. Ne parlavo più tardi nei temi che mi assegnava il maestro, lo descrivevo in ogni dettaglio, come l’avessi visto davvero. Devo mettere esso o lui, ho chiesto un giorno, con la penna tra i denti. Esso, ha risposto il maestro Ivano, è un animale. Ero l’unica di quarta, nella pluriclasse di venti bambini avevo un tema tutto per me. Oggi esso non si usa più.
Non hai paura che lo incontro, domandavo ogni tanto a mio padre. Volevo una prova del suo amore. Scuoteva la testa, distratto e sicuro, e io: perché no?
Camminando con il peso dei libri trasalivo a ogni fruscio, anche di una lucertola. Ogni movimento dietro i tronchi era quello che mi avrebbe sbranato. Non so se era più lo spavento o la rabbia contro mia madre che non mi accompagnava mai, nemmeno nel pezzo più fitto del bosco. Aveva sempre altro da fare, mia madre, altro che non ero io.
Adesso si avvicinano, i lupi. Mio padre mastica odio, anche se non ha più le pecore che potrebbero essere divorate. Un odio che è solo la scorza di un terrore antico e inconfessabile. Io lo racconto, invece. Non mi si è mai del tutto staccato di dosso. L’animale che poi si svelava tra i faggi era una volpe dalla folta coda, un tasso, o niente. Solo rami che si muovevano al vento, respiravo sollevata e anche un po’ delusa. L’assenza dei miei non mi aveva uccisa. Il mio martirio era rimandato.
Sono rientrata nelle mura di Penne, il mio paese in Abruzzo, poi in casa, l’impressione ancora addosso. I lupi sono qui, alle porte. Lo sappiamo da tempo, ma incontrarne uno è diverso. Non è più la solita favola, la presenza leggendaria, una diceria della gente.
Io e Adelaide l’abbiamo visto anche in autunno e quella volta eravamo a piedi. Una semplice passeggiata al Voltigno, in silenzio. È apparso di colpo, a qualche metro da noi. Sono rimasta raggelata, nel timore e nella meraviglia. Il cuore mi sfondava il petto. Era un esemplare grosso e in carne, forse un maschio. Ci ha fissate con gli occhi gialli e attenti. Non dimenticherò mai quei secondi sotto lo sguardo del lupo. È così diverso da quello del cane. Ci stava studiando, e chissà cosa ha pensato di noi. Forse che non eravamo pericolose e non si doveva difendere. Attaccarci non era dunque necessario, nemmeno scappare. Attribuirgli un pensiero mi viene spontaneo e mi incuriosisce l’idea che si fa degli umani, quando li incrocia. L’idea, di nuovo. Ha idee, il lupo?
Si è allontanato calmo ed elegante lungo il bordo indistinto dell’altopiano. Poteva starci lì, è la montagna, il suo habitat. Poco più avanti abbiamo trovato la carcassa fresca del capriolo, le costole tutte spolpate. Intatte solo le orecchie, gli occhi cavati.
Quando l’ho raccontato a Mia Canestrini, esperta di biodiversità animale e lupologa, ha sorriso. Non è stato il lupo, mi ha detto. Quello l’hanno fatto gli uccelli, gazze o cornacchie. In un momento la scena di lui che estrae l’occhio del capriolo e se lo mangia come una caramella mi si è scomposta in pixel, si è dissolta. C’eravamo cascate anche io e Adelaide, nella cattiveria del lupo. Il lupo si prende sempre tutte le colpe.
Lei, Mia, lo ama. Mica solo il lupo, eh. Ma ascoltandola si capisce subito che è il suo prediletto tra i selvatici. Negli anni ’70 era quasi estinto, se ne contavano circa cento esemplari in Italia, tra l’Abruzzo e la Sila. Prima era ovunque, nelle pianure, sulle coste. Ma l’uomo si era spinto in alto con l’agricoltura e l’allevamento, lo aveva costretto a ritirarsi nelle zone più impervie. Me li ricordo i contadini arrivare con l’aratro sull’orlo del precipizio, contendere la terra al fosso fino all’ultimo metro. E se il lupo mostrava il muso nei pressi dei pascoli, il fucile era pronto. Non a spaventarlo, a ucciderlo.
Li avevano sterminati, negli anni ’70. Ma poi anche pastori e contadini sono diminuiti, troppo sacrificato lavorare le terre alte. Mio padre pure è sceso a valle e ha potuto finalmente avere un trattore. Io una classe con solo bambini di quinta. Mi guardavano strano, i primi giorni, ero quella che veniva dalla montagna. Forse avevo visto i lupi.
È sempre rientrato nella lista degli animali nocivi, insieme alla volpe, al serpente. Alle favole serviva un cattivo, la religione aveva bisogno di simboli da contrapporre, per il bene e per il male. La comunità dei cristiani era chiamata gregge o pecorelle, guidate dai pastori della Chiesa. Dall’altra parte lui: l’insidia, il demonio. L’aura di mistero e terrore che lo ha circondato nei secoli si è rivelata molto più potente del mito fondativo di Roma, più potente della lupa tenera e materna che allatta i neonati Romolo e Remo sulla riva del Tevere. O anche delle baccanti di Euripide che all’inverso allattano, prese da dionisiaca ebbrezza, «cerbiatti e lupacchiotti selvaggi». Il lupo doveva stare in un altro posto, al servizio delle tenebre.
I lupari gli lasciavano carcasse di agnello dentro le trappole, da morto se lo caricavano sulle spalle con un bastone e lo esibivano a bocca aperta, i denti feroci in bella vista. Li vediamo all’opera in Uomini e lupi, un film del ’57 con Silvana Mangano e Yves Montand, girato a Scanno, in provincia dell’Aquila.
La comunità li ricompensava in natura e in denaro. Nell’Ottocento una lupa gravida era pagata ben sei ducati, viva o ammazzata. Lacci, tagliole, bocconi avvelenati, tutto era consentito. Poi sono arrivati i fucili. È diventato specie rigorosamente protetta un attimo prima dell’estinzione.
L’uomo non è una preda per il lupo, mi ricorda Mia Canestrini. I rari casi in cui l’attacca, come di recente è successo a Vasto, lo fa perché qualcuno l’ha abituato a ricevere cibo, e lui poi lo pretende. Associa l’umano al cibo e può mordere per averlo. E noi che cosa associamo al lupo? Terrore, agilità, fame, wilderness.
Secondo l’ultimo censimento ISPRA sono 3.500 in Italia. Questo dato mi ha stupita, me ne aspettavo milioni. È che si spostano in aree molto ampie, anche più di cento chilometri quadrati. Forse è sempre lo stesso lupo che viene visto e moltiplicato. Ci sentiamo invasi e pensiamo che il lupo deve stare in montagna, mi dice Francesca Camilla D’Amico, narratrice e guida nel parco della Maiella. È la solita storia, la nostra visione antropocentrica, da padroni del mondo. Decidiamo noi chi sta dove.
Il lupo è libero, adattabile, elusivo, opportunista. Mangia le sue prede elettive, ma anche le nutrie in Pianura Padana, i rifiuti abbandonati o comunque accessibili nelle periferie delle città. Si sta soltanto riprendendo il suo territorio, che è ovunque. Ci fa il piacere di controllare il numero degli erbivori, che danneggiano l’agricoltura e il bosco. E aiuta a contenere il proliferare smodato dei cinghiali.
In Abruzzo lo conosciamo, c’è sempre stato, anche se con piccoli numeri. Gli allevatori hanno imparato a difendersi. Altrove, dove è tornato in seguito ai provvedimenti di tutela, l’insofferenza è maggiore. I danni sono reali, se riesce nelle sue incursioni. Di nuovo si parla di abbattimenti selettivi. Ursula von der Leyen vuole declassare lo stato di protezione del lupo. I cacciatori festeggiano. Sembra un arretramento all’arcaico, ai bestiari medievali, ai lupari.
L’Abruzzo è stato uno straordinario laboratorio per la tutela dei selvatici. Nel ’74 con l’“Operazione San Francesco” si avviò lo studio del lupo appenninico. Raggiunsero la Maiella grandi lupologi, come lo svedese Erik Zimen, allievo di Lorenz, e l’americano David Mech. Francesca Camilla D’Amico mi racconta affabulandolo l’arrivo di Zimen a Caramanico: si era portato dietro i quattro o cinque lupi di cui era diventato capobranco. Immagino come la gente abbia guardato uno che si trasferiva da noi con la sua famiglia DI LUPI: un matto. Altri matti poi amati – non da tutti – erano qui sul posto: Luigi Boitani dell’Università dell’Aquila e Paolo Barrasso, ancora studente. Barrasso morì cadendo sul Morrone nel ’91, in circostanze mai del tutto chiarite. Con il ripopolamento di cervi, caprioli e camosci, aveva restituito le prede ai lupi, che erano già molto più numerosi di prima.
Qualche anno fa dovevo andare in Svezia, con un cambio a Francoforte. Mi aspettavo il piccolo Frankfurt-Hahn, che già conoscevo, e invece il volo da Fiumicino è atterrato in ritardo in uno degli scali più grandi d’Europa. Dovevo anche passare al desk di Lufthansa per una formalità e rischiavo di perdere l’aereo per Göteborg. Mi sono messa a correre senza una direzione sicura, trascinando il trolley. Ero sola, non sapevo il tedesco, ma nemmeno l’inglese. Le parole sufficienti a seguire le indicazioni però sì, e all’improvviso non le ricordavo più. Dov’era quel maledetto desk? Mi sono persa nella folla, un sudore gelato addosso. A un certo punto ero ferma, mi urtavano o mi evitavano come un ostacolo inanimato, una pietra. Stavo per svenire tra i passeggeri che procedevano spediti verso il loro gate, forse mi avrebbero calpestata. Non ho riconosciuto l’attacco di panico: è subdolo, si presenta appena un po’ diverso dal solito e ti fa credere che stavolta stai proprio morendo.
Il lupo attacca quando capita, e l’ansia anche. «I momenti di impasse si evidenziano quando i partecipanti a un particolare contesto o situazione non hanno strategie comportamentali, narrative, emotive», scrivono Telfener e Casadio in Sistemica. In quei momenti perdo tutte le mie strategie. L’ansia è in agguato, dove non so. In un aeroporto tedesco, nella lingua straniera, su un viadotto che crolla mentre ci transito sopra. Io sono catastrofica.
Non mi godo niente. Rifuggo dalla felicità, subito dopo arriva la botta forte. Io mi porto sfiga da sola, mi immagino i malanni e me li faccio succedere. Attiro gli abbandoni. Ho paura e me ne vergogno, non per questo mi passa. Non passa da allora, è solo uscita dal bosco. La minaccia è diversa, non ha più il passo dell’animale.
Il lupo che ne sa. Non è buono né cattivo, fa quello che è: un carnivoro, un predatore. Scorrazza anche per cento chilometri nella natura indifferente, che lo nutre o lo affama. Quando è necessario si avvicina alle case, in cerca di rifiuti buoni da mangiare. Quello lì che rovista nel buio, dietro il cassonetto, non è la volpe, non è un cane, vedi come è più grigio. È il lupo. Scrivo di lui e lo amo di un amore tutto di testa. Lo guardo da lontano e ancora un po’ mi spavento.