Wired. Poco più di un anno fa, il ministro della Salute Roberto Speranza firmò un decreto che autorizzava la distribuzione di due anticorpi monoclonali (rispettivamente prodotti da Eli Lilly e Regeneron/Roche) per la prevenzione delle forme gravi di Covid-19 in pazienti con malattie lieve ma considerati a rischio.
Già allora la questione sembrava abbastanza complessa, sia dal punto di vista scientifico che sanitario. Da una parte gli studi, seppur preliminari, mostravano una certa efficacia dell’uso di farmaci di questo tipo. Dall’altra tutti i distinguo del caso. In primis relativi all’individuazione dei pazienti giusti, dato che gli anticorpi monoclonali sembrano funzionare soltanto nelle fasi precoci della malattia, e non in quelle avanzate: pertanto è necessario individuare subito i pazienti più a rischio e iniziare tempestivamente la terapia, cosa tutt’altro che facile. Poi alle modalità di somministrazione, perché la terapia va inoculata in ambiente ospedaliero, o comunque medicalizzato, con infusione endovenosa della durata di un’ora più un’altra di osservazione del paziente. Infine ai costi, dal momento che sviluppare, produrre e distribuire questo tipo di trattamenti è tutt’altro che economico.
In generale, un anticorpo è una glicoproteina che ha il compito di riconoscere gli agenti patogeni estranei al corpo, come batteri e virus, per permettere al nostro organismo di neutralizzarli. Cosa vuol dire monoclonale, allora? Bisogna ricordare che il sistema immunitario umano produce anticorpi in gran quantità, e soprattutto di diversi tipi, in grado di identificare il patogeno con un sistema di tipo chiave/serratura.
Nello specifico, quando il sito di legame presente sulla superficie di un anticorpo trova un antigene complementare su un patogeno (o su un altro elemento esterno) che sta attaccando l’organismo, il sistema immunitario inizia a produrre in massa l’anticorpo in questione e in questo modo, quando tutto va bene, l’infezione viene sconfitta. Tuttavia, come anticipavamo un attimo fa, gli anticorpi esistono in miliardi di forme diverse, e non tutte hanno la stessa efficacia. Inoltre, l’organismo impiega un certo tempo per organizzare la difesa e mettere in campo anticorpi in quantità sufficienti per neutralizzare i patogeni, talvolta purtroppo soccombendo prima di riuscirci.
È qui che entrano in scena i monoclonali. Già da quarant’anni, infatti, la comunità scientifica e l’industria farmaceutica hanno imparato a sviluppare e produrre repliche esatte di un dato anticorpo, tutte identiche tra loro. L’anticorpo da clonare viene scelto, naturalmente, selezionando la variante più efficace tra quelli prodotti dal sistema immunitario. In questo modo si ha tra le mani un farmaco molto potente e versatile: al momento, gli anticorpi monoclonali sono infatti utilizzati in campo oncologico, reumatologico (per esempio nel caso di malattie autoimmuni) e, naturalmente, nel caso di infezioni da batteri o virus. Tra cui anche Sars-Cov-2.
Al momento la Commissione europea, su parere positivo dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), ha autorizzato tre anticorpi monoclonali contro Covid-19: il cocktail casirivimab-imdevimab, con nome commerciale Ronapreve, sviluppato da Regeneron/Roche, usato sia per il trattamento che per la prevenzione della malattia; il regdanvimab, nome commerciale Regikrona, sviluppato da Celltrion Healthcare Hungary Kft, e il sotrovimab, nome commerciale Xevudy, sviluppato da Gsk, per il solo trattamento.
Oltreoceano, invece, la Fda ha approvato anche (sempre per uso di emergenza) lo Evusheld, prodotto da AstraZeneca e destinato a soggetti immunocompromessi: si tratta, in particolare, della combinazione di due molecole, il tixagevimab e il cilgavimab, da iniettare in modalità intramuscolo come si fa con i vaccini. In un trial clinico condotto su 5mila volontari, spiega il New York Times, Evusheld si è mostrato in grado di ridurre del 77% le possibilità di contrarre la malattia, subito dopo la somministrazione, e dell’83% sei mesi dopo. Il farmaco è attualmente in fase di analisi anche da parte dell’Ema, che si dovrebbe pronunciare a breve.
Le due notizie più recenti riguardano entrambe la variante omicron, anche se in modo opposto. La prima è che la fondazione Toscana Life Sciences, coordinata da Rino Rappuoli, ha sospeso temporaneamente l’arruolamento di nuovi pazienti positivi al Sars-Cov-2 per una sperimentazione di fase II e III sull’uso di Jo8. “Jo8, che da test in vitro si è finora dimostrato uno degli anticorpi monoclonali umani più potenti che siano stati testati in clinica contro il virus – spiega la fondazione – ha dimostrato una perdita di efficacia nei confronti della variante omicron”, precisando poi che “tutti i pazienti già arruolati verranno seguiti fino al termine dello studio stesso, come definito nel protocollo”.
La seconda invece è relativa al bebtelovimab, approvato per l’uso di emergenza dalla Fda dopo che i primi test di laboratorio ne hanno messo in luce l’efficacia contro la variante omicron. L’ente regolatorio, però, ha precisato che non si tratta della terapia d’elezione, e anzi andrebbe usato solo nel caso in cui gli altri trattamenti “non siano accessibili o clinicamente appropriati”.
C’è dell’altro: pochi giorni fa è ufficialmente partito AntiCov, uno studio multicentrico coordinato dalla fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs, che arruolerà in totale 560 pazienti positivi al Covid-19, ad alto e basso rischio di complicanze, e di alcuni pazienti in età pediatrica, per valutare l’efficacia dei tre monoclonali attualmente approvati in Italia, con particolare attenzione (naturalmente) alla variante omicron.
“Il nostro studio in particolare si focalizzerà su tre domande – spiega Luca Richeldi, direttore della Unità operativa complessa di Pneumologia al Policlinico Gemelli -. Ci sono differenze fra i vari anticorpi monoclonali in termini di efficacia e sicurezza nella popolazione ad alto rischio? Questi anticorpi sono utili anche nella popolazione a basso rischio? E nella popolazione pediatrica?”. Attendiamo le risposte.