La domanda adesso è: quanto tempo durerà ancora il taglio agli stipendi? Perché è vero che il senato nel 2010 ha deciso, rinunciando all’autonomia di cui gode, di applicare ai propri dipendenti le ritenute previste per tutti gli altri travet dalla manovra Tremonti: taglio del 5% dello stipendio per la quota che eccede i 90 mila euro annui, del 10% per la parte over 150 mila.
Ma è anche vero che nella delibera di recepimento, il consiglio di presidenza si è riservato il potere di cancellare il balzello, anzi di restituire ai diretti interessati quanto è stato sottratto. Insomma si taglia nell’immediato, ma si introduce anche un sistema che consente di eliminare o modificare in meglio il trattamento «con efficacia retroattiva». Una delibera, quella adottata dal consiglio di presidenza, con la sua bella clausola paracadute, finora rimasta nel chiuso dei cassetti e che un dirigente di Palazzo Madama ha imbracciato nelle scorse settimane come una clava per demolire il contributo forzoso. Il ricorso ha percorso le vie della magistratura interna e, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, è stato respinto. Ma le motivazioni addotte dal ricorrente erano tutt’altro che peregrine e ora più di un senatore dubita che si possa resistere ancora per molto. Perché c’è una delibera che parla chiaro e che, dal momento che è stata fatta, non può essere ignorata. L’errore, o il trucco, sarebbe nel manico.
Il taglio è stato previsto per tutte le pubbliche amministrazioni dal decreto 78 del 2010, una delle manovre correttive dei conti pubblici dell’ex ministro del tesoro, Giulio Tremonti: vista l’eccezionalità della crisi economica e finanziaria, gli emolumenti dei burocrati sono sottoposti a un contributo di solidarietà del 5 e del 10%, dal 2011 fino al 2013. Il senato, così come la camera, sono fuori dal perimetro di azione della legge dello stato, ma entrambi i presidenti dei due rami del parlamento, rispettivamente Renato Schifani e Gianfranco Fini, decidono di adeguarsi. Ciascuno fa la propria delibera. Palazzo Madama conta circa 960 dipendenti e il bilancio del 2011 conteggia grazie alla leve del contributo forzoso un risparmio di 9,5 milioni di euro per il 2011, che sale a 11, 5 milioni nel 2012 per diventare 14 milioni nell’ultimo anno di sacrifici.
Il consiglio di presidenza però prima decide di adeguarsi al resto dello stato e poi decide di introdurre una clausola di salvaguardia a tutela solo dei propri dipendenti che hanno notoriamente salari molto più alti della media del pubblico impiego. La clausola prevede che qualora nell’ordinamento dovessero essere abrogate, modificare o attuate in senso più favorevole ai dipendenti di altre amministrazioni le norme sui tagli, le disposizioni restrittive di palazzo saranno «conseguentemente abrogate, modificate o diversamente attuate con decreto del presidente del senato, con efficacia retroattiva». E a gennaio scorso è arrivato il ricorso che chiede il rispetto della clausola: perché il decreto legge n. 1 del 2012 del governo Monti ha previsto che Monopoli e Agenzie fiscali possano derogare al decreto 78, autofinanziandosi attraverso il fondo di posizione o di risultato, evitando così le decurtazioni. Ed è ora quindi che i tagli finiscano anche al senato. Anzi che siano restituiti tutti i prelievi forzosi pregressi, chiede il ricorrente. Ma non se ne farà nulla, l’amministrazione ha resistito. Del resto, con le polemiche sui doppi incarichi dei ministri, su quanto guadagnano i parlamentari, che i tagli alle indennità li hanno fatti da tempo ma sono sempre nel mirino delle contestazioni, e le prime pagine sul tetto agli stipendi dei superburocrati fissato da Monti, non c’è il clima giusto.