«L’uomo che mi ha stuprata è stato condannato, ma non basta. Non penso sia stata ancora fatta completamente giustizia. Ora debbono pagare anche coloro che non mi hanno garantito sicurezza lasciandomi in balia di quell’uomo, cioè i vertici dell’Azienda sanitaria provinciale (Asp)». A dieci giorni dalla sentenza che ha condannato a otto anni l’uomo che nel settembre scorso la sequestrò e la violentò all’interno della guardia medica dove prestata servizio, a Trecastagni (Catania), Serafina Strano, 52 anni, sposata e madre di due figlie, ha già intrapreso una nuova battaglia. «Sulle responsabilità dei vertici dell’Asp ci sono già esposti e denunce. So che la Procura di Catania sta indagando. Spero che presto vengano accertare anche le loro responsabilità».
A viso aperto
Dopo la notte da incubo vissuta sul posto di lavoro Serafina Strano ha ritrovato una determinazione che anche lei non immaginava. Va avanti a denunciare e lo fa sempre a viso aperto, mostrandosi spesso anche in televisione. «Non ho mai avuto alcuna remora a mostrarmi pubblicamente – spiega — per la semplice ragione che quella notte io ho visto la morte in faccia. E allora mi son detta che non poteva finire tutto richiudendomi nel privato, con la mia rabbia e le mie ferite. Ho superato la naturale vergogna che si prova in queste circostanze e mi sono detta: “Se mi lascio condizionare dai pregiudizi continuerò ad essere violentata”. Anche se le assicuro: non è facile stare sotto i riflettori. L’ho pagata e continuo a pagarla. Per questo mi ha ferito non avere avuto acconto al processo i miei colleghi».
Ecco, lei ha lamentato di essere stata lasciata sola…
«Si, è così. Tranne pochissimi colleghi per il resto sono spariti tutti. Nonostante le belle parole l’Ordine dei medici di Catania non si è costituito parte civile al processo, mentre molti che fanno le guardie mediche si sono dileguati per paura di perdere il lavoro».
Ma perché accusa i vertici dell’Asp?
«Per la semplice ragione che hanno dotato le nostre guardie mediche di misure di sicurezza ridicole. Nel 2016 ci fu un altro caso analogo al mio ai danni di un’altra collega. Dopo quell’episodio e le nostre diffide l’Asp ci mise a disposizione un braccialetto che consente di far partire una telefono al 112».
Quindi c’era un sistema di allarme?
«Ma sta scherzando? Dove si è mai visto un dispositivo di allarme che si può disattivare dall’interno. E infatti il mio aggressore la prima cosa che fece, appena entrato nella guardia medica, fu staccare il telefono. E quindi non c’era più alcuna possibilità di allertare il 112. All’ingresso erano state installate anche delle telecamere, ma a circuito chiuso e quindi non collegate con le forze dell’ordine. Infine c’era pure la porta blindata. Quindi una trappola perfetta. Totalmente isolata dal mondo»
Violenza premeditata
Neanche la blindatura era una protezione?
«Tutt’altro. Non a caso io la lasciavo sempre aperta quando arrivava qualcuno. Se quella notte l’avessi chiusa lui avrebbe potuto fare di me quello che voleva. E invece dopo un’ora e mezza sono riuscita a scappare in un suo momento di distrazione». Quindi lei aveva la percezione di non lavorare in un posto sicuro?
«Si, anche non avevo capito quanto fosse insicuro. E soprattutto non potevo mai immaginare che qualcuno potesse pianificare una violenza conoscendo bene le scarse misure di sicurezza. Dalle immagini registrate dalle telecamere si vede lui che fa irruzione e poi mi trascina dentro dopo un mio primo tentativo di scappare. Lui è sempre stato attento a non stare in favore delle telecamere. E questo dimostra che aveva pianificato tutto. Abitava vicino, era venuto altre volte, conosceva ogni mio movimento e, soprattutto, sapeva che non correva rischi».
Lei non lavora più nella guardia medica?
«Da un mese, rientrata dalla malattia, ho un altro incarico. Ma la mia battaglia continua».
Cosa si può fare per aumentare i livelli di sicurezza?
«Sia chiaro, così come sono queste guardie mediche andrebbero chiuse. Una donna è sola, in balia di chiunque, spesso in luoghi isolati o di campagna. Ma se proprio le si vuole tenere aperte bisogna renderle veramente sicure. E non certo grazie alle guardie del corpo private, che spesso sono mariti o fratelli».
I commenti su Facebook
La sua famiglia come ha vissuto la sua vicenda?
«È stata letteralmente devastata. L’unica cosa che può lenire il dolore di mio marito e delle mie figlie è il fatto che sono ancora viva. Non so neppure dove abbiamo trovato tanta forza. Le dico solo che i miei hanno saputo che ero stato stuprata da Facebook, ancor prima che leggessero i giornali. Con tutto il corollario di commenti tipo: “Ma forse la dottoressa aveva la scollatura”. Una ferita che difficilmente riusciremo a sanare».
Per questo lei chiede ancora giustizia?
«Si, e non mi bastano più le parole. Voglio altro. Voglio che cambi realmente qualcosa, anche a costo di vedermi massacrata da chi ora mi consiglia di abbassare i toni. Di chi dice che sto esagerando, che parlo troppo, che sono esibizionista».
corriere.it – 10 maggio 2018