Registrare le conversazioni dei colleghi a loro insaputa è motivo di licenziamento, anche se le registrazioni servivano a provare un caso di mobbing. A stabilire questo principio è stata la sezione lavoro della Corte di cassazione che ha confermato, con la sentenza n. 26143 depositata il 21 novembre, il licenziamento intimato a un medico dall’azienda ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino «per la grave situazione di sfiducia, sospetto e mancanza di collaborazione venutasi a creare all’interno dell’equipe medica di chirurgia plastica». La sentenza
Il medico aveva registrato alcune conversazioni di suoi colleghi – alla presenza del primario, negli spogliatoi e nei locali comuni – senza che questi ne fossero a conoscenza, violando il loro diritto alla riservatezza.
Le conversazioni servivano al medico per provare in sede giudiziaria una denuncia di mobbing che egli stesso aveva presentato nei confronti del primario.
Il Tribunale e la Corte d’appello di Torino hanno confermato il licenziamento, rilevando che la condotta tenuta dal medico integrasse «gli estremi della giusta causa di recesso in conseguenza della irrimediabile lesione del vincolo fiduciario con la parte datoriale».
Dopo la sentenza della Corte d’appello il medico torinese ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che «la Corte territoriale sarebbe incorsa in errore nel valutare la legittimità del recesso datoriale alla luce di una sola contestazione, vale a dire quella relativa alle registrazioni delle conversazioni tra i colleghi al fine di supportare la denuncia di mobbing».
I giudici della Corte di cassazione, però, hanno confermato le motivazioni dei giudici di merito. Secondo la Corte le risultanze processuali hanno dato conto di un «comportamento tale da integrare una evidente violazione del diritto alla riservatezza dei suoi colleghi, avendo registrato e diffuso le loro conversazioni intrattenute in ambito strettamente lavorativo alla presenza del primario ed anche nei loro momenti privati svoltisi negli spogliatoi o nei locali di comune frequentazione, utilizzandole strumentalmente per una denunzia di mobbing rivelatasi, tra l’altro, infondata». Da ciò è conseguito «un clima di mancanza di fiducia – conclude la Corte – indispensabile per il miglior livello di assistenza e, quindi, funzionale alla qualità del servizio, il tutto con grave ed irreparabile compromissione anche del rapporto fiduciario» tra il medico dipendente e l’azienda.
Il Sole 24 Ore – 22 novembre 2013