La Cassazione, con sentenza 1350 del 26 gennaio 2016, ha ribadito che il diritto di sciopero non può essere invocato per giustificare il rifiuto di una sola parte dei propri compiti, consistente nella sostituzione, dovuta contrattualmente, di un collega assente. Assimilando tale comportamento al cosiddetto sciopero delle mansioni, i giudici hanno ritenuto che tale comportamento travalicasse il legittimo esercizio di sciopero, risolvendosi in un inadempimento contrattuale del lavoratore.
Nel caso di specie, il lavoratore era stato sanzionato dall’azienda con quattro giorni di sospensione dal lavoro per essersi rifiutato, nell’arco di più giorni, di sostituire un collega assente, a fronte di un espresso obbligo in tal senso contenuto nell’accordo sindacale applicato. Tale accordo prevedeva che la sostituzione, anche se svolta oltre il normale orario di lavoro, fosse remunerata con una quota di retribuzione inferiore alla maggiorazione prevista per il lavoro straordinario.
Il dipendente si giustificava affermando che il rifiuto di sostituire il collega assente doveva considerarsi quale esercizio del diritto di sciopero, in adesione all’agitazione sindacale proclamata dal sindacato di appartenenza.
La Corte ha inteso dare continuità al proprio orientamento secondo cui, pur in assenza di una definizione legislativa di sciopero, lo stesso deve intendersi quale astensione collettiva dalla prestazione attuata dai lavoratori per l’autotutela dei propri interessi e a costo della perdita della relativa retribuzione. Pertanto, è legittima la mancata esecuzione della prestazione lavorativa in determinate unità di tempo, anche se inferiori alla giornata o coincidenti con il lavoro straordinario, mentre ci si colloca al di fuori del diritto di sciopero quando il rifiuto di rendere la prestazione per una data unità di tempo non sia integrale, ma riguardi solo uno o più tra i compiti che il lavoratore è tenuto a svolgere.
Per assimilare il caso in esame ad uno sciopero delle mansioni (ritenuto illegittimo perché il lavoratore reca danno al datore, adempiendo solo in parte ai compiti dovuti, ma restando pur sempre al lavoro per non perdere la remunerazione) la Corte ha dovuto sottolineare il fatto che il dipendente, rifiutandosi di sostituire il collega assente, non perdeva la normale retribuzione. La sostituzione in realtà sarebbe stata remunerata anche se non come lavoro straordinario (e differenziando quindi il caso da una ipotesi di astensione collettiva dalle prestazioni straordinarie): la Corte ha tuttavia voluto evidenziare come il rifiuto contravvenisse all’assetto contrattuale collettivo, secondo cui dette prestazioni risultavano dovute.
Il principio applicato dalla Corte appare conforme ad un canone di buona fede nello svolgimento del rapporto di lavoro, al quale non sembra essersi attenuto il lavoratore che ha in sostanza rifiutato di eseguire parte delle proprie mansioni.
A ben guardare, l’esercizio di equilibrio che hanno dovuto affrontare i giudici, per riconciliare la disciplina contrattuale delle prestazioni esigibili (seppure non in regime di straordinario), in un contesto tanto delicato come il diritto costituzionale di sciopero, potrebbe fornire preziosi spunti anche alla riflessione pubblica che da poco si è levata sul tema dell’adeguatezza della misurazione solo oraria del lavoro.
Uberto Percivalle e Lorenzo Zanotti – 16 febbraio 2016