La responsabilità penale del chirurgo per operazioni non necessarie deve essere collegata a interventi eseguiti contro la volontà del paziente, oppure alle ipotesi in cui l’azione del professionista non sia diretta a finalità terapeutiche o comunque a un beneficio per la salute complessiva del paziente.
Restano invece fuori dalle aule di tribunale (penale) gli interventi operatori ancorchè inefficaci ma che, pur apportando lesioni “naturalisticamente” inevitabili all’organo interessato, non provocano una «malattia» scientificamente rilevabile.
Con una sentenza particolarmente complessa e argomentata, la Quinta sezione penale della Cassazione (33136/11 depositata ieri) ha rinviato all’Assise d’appello di Milano il caso di un primario di cardiochirurgia di un istituto del capoluogo, condannato in primo grado per interventi “a cottimo” (compreso l’omicidio preterintenzionale di un paziente deceduto appena dimesso) ma in larga parte riabilitato dai giudici di secondo grado.
Il processo era nato dopo la denuncia di un sacerdote che aveva subito l’impianto di una valvola aortica e di una protesi meccanica, salvo poi scoprire da consulti successivi l’inutilità dell’intervento. Dalla testimonianza di un dipendente della clinica, il Gip – in sede di giudizio abbreviato – aveva poi individuato il movente – per questo e altri casi – in una serie di maggiorazioni retributive concordate dal primario per il raggiungimento di obiettivi da sala operatoria (600 interventi/anno). Le circostanze di fatto, tuttavia, sono state rimesse in discussione dalla Cassazione, che ha ravvisato gravi approssimazioni nella valutazione dei verbali del teste, tali da mettere potenzialmente in dubbio lo stesso movente economico, o almeno di ridurlo in grande misura.
Tuttavia, nel restituire gli atti ai giudici d’appello, la Cassazione richiama i principi guida per affermare la responsabilità da interventi chirurgici superflui. In particolare l’impostazione “funzionalistica” del concetto di malattia (presupposto del delitto di lesioni colpose): «Se si ritiene che non possa integrare il reato la lesione che coincida, come evento casualmente derivato, in una mera alterazione anatomica senza alcuna menomazione funzionale dell’organismo , se ne deve dedurre che l’elemento psicologico non potrà non proiettarsi a “coprire” anche la conseguenza funzionale che dalla condotta illecita è derivata» (Sezioni Unite 2437/2008). In definitiva, «la responsabilità, nelle sue diverse forme, va collegata sia a situazioni di interventi eseguiti contro la volontà del paziente, sia in condizioni in cui l’azione del medico non sia volta al proprio specifico fine terapeutico, e comunque non realizzi un beneficio complessivo per la salute del paziente, il vero bene da preservare».
ilsole24ore.com – 7 settembre 2011