Con la sentenza 82, depositata il 4 gennaio 2018, la Cassazione offre una ricognizione “orientata” dei propri precedenti in materia di prova del danno da demansionamento, in cui emerge una semplificazione degli oneri di prova che non appare del tutto coerente con le affermazioni sul principio di diritto pur richiamato nella pronuncia stessa.
Nonostante la fattispecie in esame sia ancora soggetta alla vecchia disciplina, si deve infatti ritenere che il medesimo orientamento possa trovare applicazione anche nel contesto del nuovo articolo 2103 del Codice civile, come modificato dal Jobs Act.
Il caso riguarda una lavoratrice che, assunta da un importante operatore telefonico, veniva inizialmente adibita a mansioni di gestione di ordini presso l’ufficio acquisti, nel cui ambito godeva di una certa autonomia negoziale verso i fornitori (in coerenza con il proprio livello di inquadramento contrattuale e le pregresse esperienze professionali maturate presso altre aziende). La dipendente veniva poi trasferita in un diverso reparto, nel quale le veniva chiesto di occuparsi di un’attività meramente esecutiva e di basso contenuto professionale.
In ragione di quanto sopra, la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’appello favorevole alla lavoratrice, soffermandosi in particolare sull’onere della prova in materia di danno da demansionamento, richiamando diversi precedenti, anche a Sezioni unite (6572/2006).
Lo fa ribadendo anzitutto il principio consolidato secondo cui, in tema di demansionamento, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale che ne deriva non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma solo laddove tale pregiudizio sia allegato e provato.
La Cassazione si preoccupa, tuttavia, di precisare come tale prova possa essere raggiunta anche attraverso presunzioni semplici e massime di comune esperienza, finendo per ritenere determinanti elementi comuni a gran parte dei casi di demansionamento, quali, in particolare, la lunga durata della dequalificazione, la circostanza che la lavoratrice avesse contestato il comportamento datoriale chiedendone una revisione e il fatto che «la parabola lavorativa dell’appellante e il disagio derivatone fossero ben noti ed evidenti nell’ambiente lavorativo».
Si tratta di una pronuncia che, pur condivisibile sotto il profilo della giustizia “sostanziale”, solleva, tuttavia, qualche perplessità in termini di coerenza nel momento in cui, da un lato, ripropone pedissequamente un principio già costante nella giurisprudenza di legittimità, dall’altro, determina, nel caso di specie, un significativo allentamento dell’onere della prova gravante sul lavoratore. Prova che pare potersi ricavare, in definitiva, da elementi del tutto impliciti nel demansionamento, e che poco o nulla hanno a che vedere con l’indagine sulla sfera relazionale e abitudini di vita a cui si dovrebbe ricollegare la risarcibilità del danno esistenziale.
Il Sole 24 Ore – 7 gennaio 2017