Il casus belli nasce all’interno del contratto collettivo nazionale della dirigenza medica del 2005 ma le considerazioni valgono anche per il contratto del comparto. Nella pronta disponibilità passiva effettuata nel giorno di riposo settimanale il lavoratore, invece, ha diritto, dietro sua richiesta, a un giorno di riposo compensativo “senza riduzione del debito orario” vedendosi costretto comunque a garantire l’orario di lavoro “normale”. La Corte di cassazione (sezione lavoro, sentenza 18 marzo 2016, n. 5465) torna sull’annoso problema interpretativo della pronta disponibilità con un inquadramento e delle puntualizzazioni probabilmente definitive a normativa vigente. Il casus belli nasce all’interno del contratto collettivo nazionale della dirigenza medica del 2005 ma le considerazioni valgono, come per stessa ammissione della Suprema Corte, anche per il contratto del comparto vista la pressoché totale sovrapposizione di norme. La sentenza
Come è noto la pronta disponibilità è un istituto contrattuale che prevede l’immediata reperibilità del dipendente e del dirigente non seguito da chiamata – per la giurisprudenza “pronta disponibilità passiva” – e, in caso di chiamata – per la giurisprudenza “pronta disponibilità attiva” – nell’obbligo di recarsi al posto di lavoro a rendere la prestazione lavorativa nel più breve tempo possibile secondo accordi da definirsi in sede locale.
Inoltre i contratti stabiliscono che in caso di chiamata il lavoro può essere retribuito come straordinario o essere fruito come recupero orario. Infine, nel caso in cui la chiamata (in pronta disponibilità attiva), avvenga nel giorno di riposo settimanale al lavoratore “spetta” un giorno di riposo compensativo nella settimana successiva “senza riduzione del debito orario”. Quindi in caso di chiamata nel giorno festivo o nel giorno libero settimanale la settimana successiva il lavoratore ha diritto a un giorno di riposo mantenendo però l’obbligo complessivo del “debito orario” settimanale di 36 o 38 ore a seconda della tipologia contrattuale.
I problemi interpretativi che si pongono sono di diversa natura:
a) la natura giuridica dell’attività prestata in pronta disponibilità;
b) l’obbligatorietà o meno del giorno di riposo compensativo nella settimana successiva;
c) se esista o meno una differenza di trattamento – nel riposo compensativo – tra la “pronta disponibilità passiva” e “attiva”.
Per quanto concerne il punto sub a) per “orario di lavoro”, si legge nell’articolo 1 del D. Lgs 66/2003, si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue funzioni”. Il primo dubbio che si pone, nell’interpretazione letterale della norma, è relativo alla equiparazione tra il servizio prestato in pronta disponibilità (passiva) e il vero e proprio orario di lavoro.
Secondo la cassazione – con orientamento costante – la reperibilità passiva è una “obbligazione strumentale ed accessoria, qualitativamente diversa da quella lavorativa, che, pur comportando una limitazione della sfera individuale del lavoratore, non impedisce il recupero delle energie psicofisiche”. Non può, di conseguenza, essere equiparata alla prestazione lavorativa. Per questa diversità che la cassazione definisce “ontologica” è corretta la previsione contrattuale di un riposo compensativo lasciando inalterato l’obbligo orario settimanale, “ossia di una giornata di riposo la cui fruizione lascia globalmente immutata l’ordinaria prestazione oraria settimanale e, quindi, impone una variazione in aumento della durata della attività lavorativa da prestare negli altri giorni della settimana”. Il godimento di tale giornata comporta quindi l’obbligo del lavoratore di recuperare le ore non lavorate nel giorno di riposo “spalmandole” sugli altri giorni lavorativi. Questo perché il giorno di riposo compensativo non è teso a “recuperare le energie psicofisiche” del lavoratore, che in pronta disponibilità passiva non ha effettivamente speso, con la conseguenza che il giorno stesso di riposo compensativo rientra nella “disponibilità” del dipendente che deve farne espressa richiesta. A lui, cioè, la scelta se compensare il giorno in pronta disponibilità passiva con un giorno compensativo, aggravando però la prestazione lavorativa negli altri giorni della settimana. Il giorno compensativo deve essere quindi obbligatoriamente richiesto dal lavoratore; senza la richiesta non sussiste l’obbligo dell’azienda di concedere tale giorno. Ne discende inoltre che il debito orario debba essere “spalmato” come negli altri giorni lavorativi della settimana senza generare debito orario futuro.
A convalida di questo orientamento la cassazione cita a propria conferma la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea che, nell’affrontare un problema dei servizi di guardia medica spagnoli, ha chiarito che nella pronta disponibilità passiva i lavoratori “pur essendo a disposizione del loro datore di lavoro, in quanto devono poter essere raggiungibili, …possono gestire il loro tempo in modo più libero e dedicarsi ai propri interessi, sicché solo il tempo relativo alla prestazione effettiva di servizi di pronto soccorso dev’essere considerato orario di lavoro ai sensi della direttiva 93/104”.
Tali assunti appaiono molto stringenti e hanno la conseguenza paradossale di equiparare, al contrario, la pronta disponibilità passiva con il reale tempo libero nella parte in cui specifica che in tale stato il lavoratore possa “dedicarsi ai propri interessi” quando invece è sospeso nel limbo dell’attesa della chiamata. Francamente eccessiva l’equiparazione visto che, comunque, il lavoratore deve sacrificare proprio la programmazione e la fruizione del proprio tempo libero nel giorno di riposo settimanale.
Diverso è invece l’orientamento per il caso sub b) in cui la pronta disponibilità sia attiva e quindi seguita da chiamata, sempre nel giorno di riposo settimanale In questo caso la Suprema Corte ha stabilito che l’azienda, oltre a corrispondere il lavoro straordinario (o in alternativa consentire il recupero orario) “dovrà comunque garantire allo stesso il riposo settimanale, a prescindere da una sua richiesta, trattandosi di diritto indisponibile, riconosciuto dalla Carta costituzionale” e dalle normative comunitarie.
Essendo quindi la pronta disponibilità attiva vera e propria attività lavorativa, genera in modo pieno e assoluto, il giorno di riposo settimanale, senza bisogno che la richiesta provenga dal lavoratore, in quanto considerato obbligo imperativo di legge e non soggetto alla disponibilità dello stesso lavoratore che, di conseguenza, non può rinunciarvi.
Quest’ultima decisione è assolutamente condivisibile alla luce del quadro normativo complessivo e ha però la conseguenza che se il lavoro prestato in pronta disponibilità attiva non copre l’orario di una giornata di lavoro – e spesso non lo copre – il lavoratore si trova a dovere coprire, nella settimana successiva, comunque il debito orario aggravando i turni delle altre giornate lavorative. In altre parole, se la chiamata in pronta disponibilità è breve o relativamente breve, il lavoratore – del comparto o dirigente – si trova a fruire obbligatoriamente di un giorno libero, ma a modificare l’orario per i giorni successivi in quanto costretto comunque a rendere le 36 o 38 ore settimanali.
Riassumendo: nella pronta disponibilità passiva effettuata nel giorno di riposo settimanale il lavoratore ha diritto, dietro sua richiesta, a un giorno di riposo compensativo, “senza riduzione del debito orario” vedendosi costretto comunque a garantire l’orario di lavoro “normale”.
In caso di pronta disponibilità attiva – seguita quindi da chiamata – sempre svolta nel giorno di riposo settimanale, l’azienda “deve” comunque garantire il giorno di riposo nella settimana successiva, anche senza una specifica richiesta del dipendente in quanto diritto “indisponibile”.
Anche in questo caso il debito orario deve essere assolto.
La disciplina della pronta disponibilità necessita, come è evidente, di una ampia rivisitazione visto che, nel corso dei decenni, è diventato un istituto cruciale per il funzionamento dei servizi sanitari. Non si tratta soltanto di adeguare la parte economica (ferma dal 1990!), ma di ridefinire le modalità di svolgimento e la corretta fruizione dei giorni di riposo per non aggravare eccessivamente le condizioni di vita di coloro che assicurano alla collettività i servizi di emergenza (e non solo).
Luca Benci (Giurista) – Quotidiano sanità – 15 maggio 2016