I lavoratori a termine hanno diritto ai permessi studio come i colleghi con contratto a tempo indeterminato. Questo anche se il beneficio non è espressamente previsto dal contratto collettivo nazionale, ma è il risultato della contrattazione collettiva decentrata e l’applicazione di quanto disposto dalla normativa comunitaria. La Corte di cassazione respinge il ricorso del ministero della Giustizia contro la decisione della Corte d’appello di Trento di riammettere un lavoratore a termine nella graduatoria utile a usufruire delle 150 ore di premessi studio retribuiti.
Il ministero: benefit in contrasto con il contratto collettivo
Secondo il ministero la concessione era in contrasto con l’articolo 13 del contratto collettivo del 2001 che sbarra l’accesso al benefit ai lavoratori “precari” a monte della contrattazione integrativa che non poteva intervenire. Un’altra “buona ragione” – secondo il ministero – per negare l’opportunità sarebbe nella mancanza di interesse da parte del datore di lavoro a far elevare culturalmente un dipendente non assunto in via definitiva, si tratterebbe, infatti di una crescita da cui non potrebbe trarre alcun vantaggio.
Per gli ermellini la decisione è discriminatoria
Gli ermellini replicano bollando come discriminatoria, rispetto all’articolo 6 del decreto legislativo 368/2001 e alla direttiva Ce/70/1999, la revoca di un beneficio frutto di accordi sovranazionali applicabili salvo obiettive incompatibilità relative al singolo contratto a termine. La Suprema corte bacchetta poi la pubblica amministrazione per la teoria della cultura «fine a se stessa», ricordando che l’accesso ai permessi studio prescinde dall’interesse del datore di lavoro, sia pubblico sia privato, ma deriva dai diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione e dalla Corte dei diritti dell’uomo.
Ilsole24ore.com – 19 agosto 2011