Secondo gli Ermellini una condotta moralmente violenta e psicologicamente minacciosa costringe il dipendente a tollerare il deprezzamento delle sue qualità lavorative
La Cassazione, con sentenza nr. 44803 dello scorso 21 dicembre 2010, ha affermato che le vessazioni subite sul posto di lavoro dal capo, non costituiscono reato di maltrattamento in famiglia (art 572 c.p.) o di mobbing (art.612-bis c.p.) ma, integrano gli estremi del reato di violenza privata.
Il caso ha riguardato un operaio con qualifica di meccanico che, denunciava il proprio “capo officina” per i reati di maltrattamento. Sia il Tribunale di primo grado che quello di appello, avevano confermato la condanna per maltrattamenti continuati del capo officina nei confronti del meccanico, condannandolo alla pena della reclusione di otto mesi.
Secondo la Cassazione invece, “perchè sia configurabile il reato di cui all’art 572 c.p., occorre un rapporto tra soggetto agente e soggetto passivo, caratterizzato da un potere autoritativo, esercitato di fatto e di diritto dal primo verso il secondo il quale versi in una situazione di apprezzabile soggezione, anche di natura meramente morale o psicologica nei onfronti del soggetto attivo”.
Nel caso di specie, tale soggezione non è stata dimostrata in giudizio pertanto, non è configurabile nè il reato di maltrattamenti ex art 572 c.p. nè quello di mobbing.
Secondo gli Ermellini, il caso configura una ipotesi di “violenza privata continuata aggravata ex art. 61 c.p., n. 2, potendo ricondursi ai puntuali episodi, contestati nell’imputazione, caratteri di una condotta moralmente violenta e psicologicamente minacciosa, idonei a costringere il lavoratore a tollerare uno stato di deprezzamento delle sue qualità lavorative nel contesto di una condotta articolata in più atti consequenziali ad un medesimo disegno criminoso, con l’intuibile aggravante della commissione del fatto con abuso di relazioni di prestazioni d’opera”.