Non rilevano ai fini del mobbing. Ma possono comunque costare cari al datore di lavoro, che può essere chiamato a rispondere di singoli episodi di vessazione nei confronti del dipendente anche se privi dell’unicità del disegno persecutorio. Lo chiarisce la Corte di cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza n. 18927, depositata ieri.
La Corte ha così azzerato la sentenza del Corte d’appello di Napoli contraria alla richiesta di condanna avanzata da una farmacista nei confronti del proprio principale. Una brutta storia fatta da (presunti) episodi di vessazione e da un (certo) tentativo di suicidio da parte della lavoratrice. Per la Corte d’appello, però, gli episodi contestati non erano idonei ad attestare l’esistenza di una strategia persecutoria con l’obiettivo di indurre la dipendente alle dimissioni. E tanto bastava per respingere la richiesta di risarcimento per mobbing. La Corte di cassazione però non è stata di questo avviso. E, dopo avere rapidamente ricordato che alla base della responsabilità per mobbing si pone di solito l’articolo 2087 del Codice civile, ha invece precisato che se anche l’insieme delle condotte messe in atto dal datore di lavoro non sono, prese cumulativamente, idonee a destabilizzare il lavoratore, tuttavia, prese invece singolarmente e caso per caso, possono essere ritenute in grado di comprimere in maniera grave i diritti fondamentali e tutelati sul piano costituzionale del dipendente. Infatti, sottolinea ancora la sentenza, in ordinamenti come il nostro, che già prevedono sul piano costituzionale misure di tutela dei diritti fondamentali del lavoratore l’elenco dei fattori di discriminazione o vessazione non deve essere considerato tassativo. A compromettere questa impostazione non può essere neppure l’iniziale prospettazione della domanda in termini di danno da mobbing. Toccherà eventualmente al giudice qualificare giuridicamente l’azione, «interpretando il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicando norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate (…)». Nella vicenda approdata in Cassazione, i giudici napoletani non hanno proceduto in questa direzione: avrebbero potuto invece accertare se qualcuno degli episodi avesse comunque un carattere vessatorio che, escludendo comunque una responsabilità del datore di lavoro nel provocare lo stato di depressione della lavoratrice sino a spingerla al tentativo di suicidio, potesse configurare un danno giuridicamente rilevante. Un danno quindi meritevole anche di un risarcimento a beneficio del lavoratore.
ilsole24ore.com – 6 novembre 2012