Il Comune è pienamente responsabile in caso di sinistro stradale provocato dal repentino attraversamento di un cane randagio. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 2741/2015. I fatti. La Corte si è trovata a dover decidere su una vicenda in cui un soggetto, a bordo di un ciclomotore di piccola cilindrata, aveva perso completamente il controllo del mezzo a seguito del passaggio del tutto imprevedibile di un cane randagio. Il centauro era caduto rovinosamente a terra riportando diverse lesioni personali riscontrate anche dai sanitari presso il vicino ospedale. Nella sentenza i giudici hanno voluto ricordare alcuni principi da cui l’amministrazione non può prescindere. Quest’ultima, infatti, in linea generale è tenuta a osservare un comportamento informato a diligenza particolarmente qualificata, «specificamente in relazione delle misure e degli accorgimenti idonei ai fini del relativo assolvimento, essendo essa tenuta a evitare o ridurre i rischi connessi all’attività di attuazione della funzione attribuitale».
Rapporto tra cittadino e Pa – Comportamento cui l’amministrazione è tenuta in base all’obbligo di buona fede o correttezza quale generale principio di solidarietà sociale che trova applicazione anche in tema di responsabilità extracontrattuale in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, «che si delinea in obblighi di informazione e di avviso nonchè volto alla salvaguardia dell’utilità altrui nei limiti dell’apprezzabile sacrificio dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi».
Conclusioni – I Supremi giudici, dopo aver ribadito, quindi, i principi propri del diritto amministrativo all’insegna della cooperazione e, soprattutto, del neminem ledere ex articolo 2043 del codice civile che devono essere sempre presenti nei rapporti tra cittadino e amministrazione sono entrati nella vicenda e hanno valutato come legittimo l’operato dei giudici di merito. Hanno ritenuto, in particolare, che il Comune deve rispondere dei danni patiti dal soggetto in sella al motorino aggredito da un cane randagio durante la marcia del mezzo, atteso che l’ente territoriale così come previsto dalla legge-quadro 14 agosto 19991 n. 281 è tenuto in correlazione con gli altri soggetti indicati dalla legge al rispetto del dovere di prevenzione e controllo del randagismo sul territorio di competenza.
Di seguito il testo integrale della sentenza.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 29 ottobre 2014 – 12 febbraio 2015, n. 2741 – Presidente Berruti – Relatore Scarano
Svolgimento del processo
Con sentenza del 2/12/2010 la Corte d’Appello di Lecce, in accoglimento del gravame interposto dal sig. S.A. e in conseguente riforma della sentenza Trib. Lecce n. 1768/06, ha accolto la domanda dal medesimo proposta nei confronti della Asl Le/2 di Maglie, che ha chiamato in causa il Comune di Maglie il quale ha a sua volta chiamato in garanzia la compagnia assicuratrice Sai s.p.a., di risarcimento dei danni lamentati a seguito del sinistro avvenuto il 26/5/1996, allorquando mentre percorreva la locale via Segni alla guida del proprio ciclomotore Vespa 50 «impattava con un cane di dimensioni medie e di colore chiaro, che appariva incustodito e randagio, investendolo e cadendo … al suolo per effetto della collisione», riportando «lesioni personali prontamente riscontrate dai sanitari dell’Ospedale di Maglie».
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la società Fondiaria – SAI s.p.a. (già SAI s.p.a.) propone ora ricorso per cassazione, affidato a 2 motivi.
Resiste con controricorso l’A..
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il 1° motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2697 c.c, 3 L. n. 281 del 1991, 6 L. Regione Puglia n. 12 del 1995, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 3, c.p.c.
Si duole che, in difetto di prova all’uopo fornita da controparte che vi era onerata, la corte di merito abbia erroneamente fondato la ravvisata sua responsabilità in ragione della violazione dell’obbligo di prevenzione del randagismo, che la legge quadro n. 281 del 1991 e la legge della Regione Puglia pongono in capo non già alla ASL bensì alla Regione.
Lamenta che la corte di merito ha erroneamente addossato alla ASL «l’onere di dimostrare l’inesistenza o l’inefficacia dei fatti costitutivi del diritto azionato da parte attrice».
Con il 2° motivo denunzia « insufficiente e contraddittoria motivazione» su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c.
Si duole che la corte di merito abbia erroneamente valutato le emergenze processuali, ed erroneamente ascritto alla «Asl Le/2 di Maglie l’omesso recupero di animali randagi in difetto di specifiche segnalazioni della presenza degli stessi animali nel territorio di Maglie».
Lamenta che la corte di merito ha erroneamente argomentato in via presuntiva, giacché «il fatto ignoto ( la natura di randagio del cane che ha attraversato la strada all’A. ) » non può «in alcun modo configurarsi come una conseguenza probabile dei fatti noti ( la circostanza, appunto, che un cane abbia attraversato la strada all’A. ), ma tutt’al più come una mera possibilità».
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
Va anzitutto osservato che come questa Corte ha già avuto modo di affermare il ricorso per cassazione richiede, da un lato, per ogni motivo di ricorso, la rubrica del motivo, con la puntuale indicazione delle ragioni per cui il motivo medesimo – tra quelli espressamente previsti dall’art. 360 c.p.c. – è proposto; dall’altro, esige l’illustrazione del singolo motivo, contenente l’esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata, e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza ( v. in particolare Cass., 19/8/2009, n. 18421 ).
Risponde altresì a massima consolidata nella giurisprudenza di legittimità che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con -fra l’altrol’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito ( cfr., da ultimo, Cass., 2/4/2014, n. 7692 ).
Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa sé stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366, l’ co. n. 3, C.P.C. è tuttavia indispensabile che il ricorso offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonché delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ( v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998 ).
È cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo ( v. Cass., 4/6/1999, n. 5492 ).
Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierna ricorrente.
Va anzitutto posto in rilievo che come da questa Corte – anche a Sezioni Unite- ripetutamente affermato, il requisito – a pena di inammissibilità richiesto all’art. 366, 1° co. n. 3, c.p.c.- della sommaria esposizione dei fatti di causa non risulta invero soddisfatto ( neanche ) allorquando come nella specie vengano nel ricorso pedissequamente riprodotti ( in tutto o in parte ) gli atti e i documenti del giudizio di merito ( nel caso, in particolare l’impugnata sentenza ), in contrasto con lo scopo della disposizione di agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, in immediato coordinamento con i motivi di censura ( v. Cass., Sez. Un., 17/7/2009, n. 16628 ), essendo necessario che vengano riportati nel ricorso gli specifici punti di interesse nel giudizio di legittimità ( cfr. Cass., 8/5/2012, n. 6909 ), con eliminazione del “troppo e del vano”, non potendo gravarsi questa Corte del compito, che non le appartiene, di ricercare negli atti del giudizio di merito ciò che possa servire al fine di utilizzarlo per pervenire alla decisione da adottare ( v. Cass., 25/09/2012, n. 16254; Cass., 16/2/2012, n. 2223; Cass., 12/9/2011, n. 18646; Cass., 22/10/2010, n. 21779; Cass., 23/6/2010, n. 15180; Cass., 18/9/2009, n. 20093; Cass., Sez. Un., 17/7/2009, n. 16628 ), sicché il ricorrente è al riguardo tenuto a rappresentare e interpretare i fatti giuridici in ordine ai quali richiede l’intervento di nomofilachia o di critica logica da parte della Corte Suprema (v. Cass., Sez. Un., 11/4/2012, n. 5698), il che distingue il ricorso di legittimità dalle impugnazioni di merito (v. Cass., 23/6/2010, n. 15180).
Un tanto anche con riferimento al requisito a pena di inammissibilità richiesto all’art. 366, 1° co. n. 6, c.p.c., atteso che la ricorrente fa riferimento ad atti e documenti del giudizio di merito [ es., all’ «atto di citazione avanti il Tribunale di Lecce», alla sentenza del giudice di prime cure, all’atto di appello ] senza che gli stessi risultino debitamente -per la parte d’interesse in questa sederiprodotti nel ricorso né puntualmente ed esaustivamente indicati i dati necessari al relativo reperimento in atti (v. Cass., Sez. Un., 3/11/2011, n. 22726; Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279), con riferimento ( anche ) alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v., da ultimo, Cass., 16/3/2012, n. 4220), con precisazione ( anche ) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, e se essi siano stati rispettivamente acquisiti o prodotti ( anche ) in sede di giudizio di legittimità ( v. Cass., 23/3/2010, n. 6937; Cass., 12/6/2008, n. 15808; Cass., 25/5/2007, n. 12239, e, da ultimo, Cass., 6/11/2012, n. 19157 ), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile
(cfr. Cass., 19/9/2011, n. 19069; Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279. E da ultimo, Cass., 3/11/2011, n. 22726; Cass., 6/11/2012, n. 19157) .
Non sono infatti sufficienti affermazioni -come nel casoapodittiche, non seguite da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente viceversa porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali ritiene di censurare la pronunzia impugnata ( v. Cass., 21/8/1997, n. 7851 ).
Deve quindi porsi in rilievo che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. non consiste invero nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito ( v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322 ).
La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare ( salvo i casi tassativamente previsti dalla legge ) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti ( v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718 ).
Va al riguardo d’altro canto ribadito che il vizio di motivazione non può essere invero utilizzato per far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte, non valendo esso a proporre in particolare un pretesamente migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento del giudice ( cfr. Cass., 9/5/2003, n. 7058 ).
Il motivo di ricorso per cassazione viene altrimenti a risolversi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.
Senza sottacersi che la ricorrente non ha invero formulato denunzia di violazione degli artt., 115, 116 c.p.c. in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c.
Quanto al merito, avuto in particolare riguardo al 1° motivo va ulteriormente sottolineato che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, in base al principio del neminem laedere la P.A. è responsabile dei danni riconducibili all’omissione dei comportamenti dovuti, i quali costituiscono il limite esterno alla sua attività discrezionale e integrano la norma primaria del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. (cfr., con riferimento a diversa ipotesi, Cass., 27/4/2011, n. 9404).
In presenza di obblighi normativi la discrezionalità amministrativa invero si arresta, e non può essere invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore in considerazione.
Va altresì posto in rilievo che il modello di condotta cui la P.A. è tenuta postula l’osservanza di un comportamento informato a diligenza particolarmente qualificata, specificamente in relazione all’impiego delle misure e degli accorgimenti idonei ai fini del relativo assolvimento, essendo essa tenuta ad evitare o ridurre i rischi connessi all’attività di attuazione della funzione attribuitale.
Comportamento cui la P.A. è d’altro canto tenuta già in base all’obbligo di buona fede o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale -che trova applicazione anche in tema di responsabilità extracontrattuale- in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui -nei limiti dell’apprezzabile sacrificio-, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi (cfr. Cass., 20/2/2006, n. 3651; Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 15/2/2007, n. 3462; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 30/10/2007, n. 22860; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056. Da ultimo cfr. Cass., 27/4/2011, n. 9404).
Condotta che, ove tardiva, carente o comunque inidonea, viene a provocare ( o a non impedire ) la lesione proprio di quei diritti ed interessi la cui tutela è rimessa al corretto e tempestivo esercizio dei poteri alla P.A. attribuiti per l’assolvimento della funzione (cfr. Cass., 25/2/2009, n. 4587. V. anche Cass., Sez. Un., 27/7/1998, n. 7339).
A tale stregua, in caso di concretizzazione del rischio che la norma violata tende a prevenire, la considerazione del comportamento dovuto e della condotta mantenuta assume allora decisivo rilievo, e il nesso di causalità che i danni conseguenti a quest’ultima astringe rimane invero presuntivamente provato (cfr. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 582. E, da ultimo, Cass., 27/4/2011, n. 9404).
Ne consegue che il Comune deve rispondere dei danni patiti da un ciclomotorista aggredito da un cane randagio durante la marcia del mezzo, atteso che l’ente territoriale – ai sensi della legge-quadro 14 agosto 1991, n. 281 e delle leggi regionali in tema di animali di affezione e prevenzione del randagismo (nella specie legge reg. … )- è tenuto, in correlazione con gli altri soggetti indicati dalla legge, al rispetto del dovere di prevenzione e controllo del randagismo sul territorio di competenza (v. Cass., 23/8/2011, n. 17528 ).
In ordine al 2° motivo va per altro verso posto altresì in rilievo che, oltre a non tener conto di quanto dalla corte di merito in realtà nell’impugnata sentenza affermato ( in particolare là dove risulta sottolineato come sia rimasto nella specie accertato che si trattava di un cane «di colore chiaro» ), nella parte in cui lamenta che «il fatto ignoto (la natura di randagio del cane che ha attraversato la strada all’A.) » non può «in alcun modo configurarsi come una conseguenza probabile dei fatti noti ( la circostanza, appunto, che un cane abbia attraversato la strada all’A. ) ma tutt’al più come una mera possibilità», la ricorrente in realtà inammissibilmente si duole non già del denunziato vizio di motivazione bensì del diverso vizio di violazione di norme di diritto, censurabile ai sensi dell’art. 360, 1° co. n. 3, C.P.C.
Emerge dunque evidente come lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili le deduzioni della ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366, 1° co. n. 4, c.p.c., si risolvono in realtà nella mera doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso dal medesimo operata (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).
Per tale via, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento degli stessi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).
All’inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese, liquidate come in dispositivo in favore del controricorrente A., seguono la soccombenza.
Non è viceversa a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione in favore degli altri intimati, non avendo i medesimi svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi euro 3.200,00, di cui euro 3.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge, in favore del controricorrente A.
Il Sole 24 Ore – 14 febbraio 2015