Il sindacalista che teme per i “tagli” in azienda e reagisce dando dello sbruffone al datore di lavoro non rischia il posto. Lo afferma la Cassazione (sentenza 15165/12) che ha convalidato l’illegittimità del licenziamento di un sindacalista della capitale, che era stato cacciato dopo essersi rifiutato di ricevere la documentazione relativa alla procedura di mobilità e aver dato dello sbruffone all’amministratore unico della società.
E’ eccessivo licenziare un dipendente impegnato nel sindacato anche se questo rivolge offese all’amministratore dell’azienda. Lo ha stabilito la Cassazione, rigettando il ricorso di una società che chiedeva che venisse confermato il licenziamento di un uomo, il quale, nella sua veste di sindacalista, si era rivolto al vertice aziendale definendolo “sbruffone”. La suprema corte (sezione lavoro, sentenza numero 15165 depositata oggi) ha così confermato una sentenza della Corte d’Appello di Roma, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento del dipendente, disponendone la reintegra e il diritto al pagamento delle retribuzioni fino al ripristino del rapporto.
La “reazione verbale” del lavoratore, secondo i giudici, “non appariva connotarsi della gravità attribuitale dalla datrice di lavoro ai fini della asserita proporzionalità della sanzione, essendo emerso che era stata l’espressione di un’aspra protesta istintiva, che il dipendente aveva manifestato nella sua veste di sindacalista a fronte di scelte imprenditoriali di riduzione del personale e in un momento di particolare conflittualità tra le parti”. Il comportamento del lavoratore, dunque, “era stato posto in essere, seppur in maniera aspra, nel contesto dell’esercizio di prerogative sindacali”, osservano gli Ermellini, e non ha “determinato un danno di immagine, come supposto dalla parte datoriale”.