Nel caso in esame il paziente aveva chiesto la condanna dell’azienda sanitaria al risarcimento dei danni fisici, deducendo un errore nell’esecuzione di un intervento chirurgico di asportazione di un’ernia discale, oltre a una ulteriore posta risarcitoria per la violazione del diritto all’autodeterminazione perché il consenso che aveva prestato non aveva tenuto conto – in quanto non riferitagli – dell’eventuale insorgenza, all’esito dell’intervento, di una seria sintomatologia dolorosa (poi effettivamente manifestatasi).
Il Tribunale di Trento aveva respinto entrambe le domande, mentre la Corte d’appello aveva riconosciuto fondata la sola pretesa risarcitoria per la violazione degli obblighi in tema di consenso.
Investita della questione, la Cassazione ha confermato la sentenza d’appello, precisando che, nel caso esaminato, il danno risarcibile derivava proprio, e solo, dalla violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente in sé e per sé considerata; e consisteva non in un pregiudizio alla salute ma nella sofferenza di carattere morale causatagli dalla «sorpresa e impreparazione» derivante dagli esiti inattesi dell’intervento, ancorché ben eseguito. A questo titolo il giudice di merito aveva ritenuto congruo, per rimediare al deficit informativo, un risarcimento liquidato in 7.000 euro.
In un contesto storico in cui la sostenibilità finanziaria dei sistemi sanitari è oggetto di severa preoccupazione (al pari dei costi impropri della medicina difensiva) si può discutere della bontà di una tale impostazione, tesa a tutelare pregiudizi di sofferenza difficilmente misurabili in concreto e comunque intrinsecamente connessi a una prestazione effettuata con successo.
Ma il principale punto di interesse dell’ordinanza del 12 giugno sta nel fatto che la percentuale di verificazione della particolare sintomatologia dolorosa lamentata dal paziente (5% dei casi) è stata qualificata dalla Corte non «eccezionale» (come avrebbe voluto la struttura sanitaria) né «altamente improbabile, essendo piuttosto a essa assegnata una percentuale di verificazione (5%) bensì bassa ma tuttavia non a tal punto da potersi qualificare nei termini anzidetti».
Queste argomentazioni inducono altre riflessioni in relazione a quale possa essere la (minore) soglia statistica al di sotto della quale una complicanza possa davvero ritenersi eccezionale (e dunque tale da non dover essere oggetto di informativa in vista del consenso). Va da sé che più si abbassa tale soglia più il modello di consenso dovrà estendersi per contenuto, ponendo qualche problema di agevole fruibilità da parte del paziente.
Infatti, secondo la Suprema Corte, la struttura e il medico hanno il dovere di informare il paziente «esprimendosi in termini adatti al livello culturale dell’interlocutore, adottando un linguaggio a lui comprensibile, secondo il relativo stato soggettivo e il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone» (sentenza 18283 del 2021). Ciò equivale a dire che alla completezza quantitativa dell’informazione dovrà essere abbinata una irrinunciabile chiarezza qualitativa; dunque, non ci si può limitare a una semplice esposizione tecnica o gergale delle possibili complicanze.
Si tratta, in ultima analisi, di valutare il bilanciamento tra le esigenze di chiarezza e di concreta fruibilità dell’informazione con la profondità della stessa, dal momento che l’estensione a fattispecie di rarissimo accadimento potrebbe dar luogo a una ipertrofia informativa non funzionale al suo scopo.