“Il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 cod. civ., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza
Tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa”. E’ quanto ribadito dalla Corte di Cassazione che, con ordinanza 7963/2012, ha accolto il ricorso di un lavoratore avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello, respingendo la domanda di risarcimento del danno della professionalità, aveva affermato che il mancato esercizio dell’attività professionale non configura di per sé alcun danno risarcibile, il quale presuppone che sia data in concreto la prova dell’avvenuto impoverimento del patrimonio cognitivo teorico-pratico del lavoratore ovvero della perdita di tangibili occasioni di promozione o di sviluppo di carriera. La Suprema Corte, richiamando principi di diritto consolidati secondo cui la violazione del diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l’inattività del lavoratore sia riconducibile ad un lecito comportamento del datore medesimo, in quanto giustificata dall’esercizio dei poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost., o dall’esercizio dei poteri disciplinari, e che il lavoratore ha a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, quindi, non solo il dovere, ma anche il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, ha sottolineato come il giudice d’appello non si sia attenuto a tali principi ove ha escluso categoricamente che la forzata inattività possa essere di per sé fonte di danno. I Giudici di legittimità precisano inoltre che, ai fini della liquidazione del danno, si deve evitare la proliferazione delle voci del danno non patrimoniale e se è vero che il danno non patrimoniale è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un vulnus ad interessi oggetto di copertura costituzionale, “questi ultimi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento, dovrà discriminare i meri pregiudizi -concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili – dai danni che vanno risarciti.”.
Tratto da: Cassazione: la forzata inattività può essere di per sé fonte di danno per il lavoratore che la subisce
(Fonte: StudioCataldi.it) – 27 maggio 2012