Toso, atu magnà e stracaganasse?». Non si sa bene perché, ma domandare in uno dei dialetti veneti se un bambino ha mangiato le castagne, fa sorridere. Certi suoni riportano all’infanzia e alla sua gentilezza. Stop, ad esempio, si dice «férmate »: resta un divieto, ma fa meno male. Può apparire sorprendente, ma la regione italiana più aperta al futuro, vuole tornare a parlare come una volta. Per dirla in modo antico: il «popolo veneto» è deciso a esprimersi in «lingua veneta».
Dalla scuola agli uffici. In tivù e sui giornali. Ovviamente si pensa di cominciare con i documenti. Sulla carta d’identità un trevigiano si potrà dichiarare «mas-cio», una vicentina «fémena ». Sulla scrivania del sindaco di Grantorto, nel padovano, è già stesa la bandiera marciana con il leone alato, madre di quella della Serenissima Repubblica di Venezia. Il primo cittadino, Luciano Gavin, mostra il suo mini iPad alle donne delle pulizie: alcuni giovani del paese giurano alle telecamere di voler «parlare veneto sempre e ovunque». «Vede — dice Gavin — non è nostalgia, tantomeno razzismo. È il sentimento profondo del nostro popolo».
Per definirlo però hanno ceduto alla tentazione dell’inglese: «Venexit», primo passo verso l’addio «a uno Stato italiano golpista e centralista». Il giorno cruciale è martedì, 29 novembre. Il Consiglio regionale ha in agenda la legge che riconosce quella veneta come minoranza nazionale. L’obbiettivo è concedere ai veneti gli stessi diritti di chi è nato in una regione o provincia a statuto speciale, dal Sudtirolo alla Sicilia. In commissione è stato un trionfo: maggioranza di centrodestra compatta, a favore pure i 5 Stelle, contro solo i consiglieri Pd e un dissidente del sindaco di Verona, Tosi. In aula chi avrà il coraggio, con la diretta web, di schierarsi contro la «lingua veneta», riconosciuta pure dall’Onu?
Però tra le Alpi e la laguna tira un’aria strana. Fino a quando il «Pdl 116i» non passerà, nessuno osa credere in un «sogno» che dura dal 1866. «A Roma — dice Loris Palmerini — è un “spolvaròn”. Il potere centrale scatena tutta la sua forza, dai media alle imprese, per tenersi i veneti sotto i piedi. Cominciando con la diffamazione». Palmerini è il presidente dell’Istituto della lingua veneta. Se passerà «la fase uno dell’autonomia», toccherà a lui curarne il cuore: il bilinguismo. «Dopo il censimento etnico — dice — chi opta per l’identità veneta affronterà il corso di lingua e l’esame per il patentino. Solo chi ne sarà in possesso potrà accedere ai posti di lavoro riservati nella pubblica amministrazione. Si chiama proporzionale etnica. Possibile che nel resto d’Italia i dirigenti statali siano del posto e in Veneto li mandino tutti da fuori? Roma riconosce i diritti dei rom e i matrimoni gay, ma quelli del popolo veneto no». Per i sondaggi il 65% dei veneti parla il proprio dialetto. Il 52% è per l’indipendenza. Pro autonomia il 100%. Il presidente della Regione, Luca Zaia, lo sa. Per la primavera 2017 ha fissato il referendum sull’autonomia, costo 14 milioni di euro. Le prove di auto-governo però potrebbero iniziare subito. I Comuni potranno imporre la lingua veneta in scuole e uffici. Chi è nato in Veneto avrà più diritti dei «foresti». «Anche prefetti, carabinieri e provveditori — dice Riccardo Barbisan, relatore della legge — dovranno parlare in veneto, a costo di ricorrere al Consiglio d’Europa. Non si può entrare in sintonia con la gente se non si capisce la sua lingua». Il vento localista non soffia da ieri. L’assalto dei “Serenissimi” al campanile di San Marco compie vent’anni. Ora però è diverso. I sindaci finanziano murales con i sette «eroi del Veneto». A Padova un’ordinanza impone a bar e ristoranti di offrire «almeno il 60% di alimenti veneti». Uno studio dell’università documenta come in dieci anni la Regione abbia speso 60 milioni di euro, il 30% del budget cultura, per la «valorizzazione dell’identità veneta». La legge sul bilinguismo è stata promossa da quattro comuni e sottoscritta da altri tre. «Il Veneto produce un surplus fiscale annuo di 21 miliardi di euro — dice Guido Lio, sindaco di Segusino — ma a Roma non ha nemmeno un ministro. Una svolta istituzionale è necessaria ». Vocabolario e correttore ortografico elettronici sono pronti. Gli interpreti per i convegni, quasi. Contro il bilinguismo solo il Pd, che oggi riaccoglie Matteo Renzi. Il premier domani firmerà il “patto per Venezia” con il sindaco Luigi Brugnaro, centro- destra ma schierato per il sì al referendum del 4 dicembre. «Il punto però è che non ci sentiamo veneti — dice la capogruppo in Regione, Alessandra Moretti — ma italiani ed europei. Siamo orgogliosi della nostra identità, ma vogliamo che i nostri figli studino lingue straniere e nuove tecnologie, senza perdere tempo con il dialetto, auto-escludendosi dal mondo. La battaglia del futuro non è il venetismo, ma abolire la disparità tra le regioni ordinarie e quelle speciali». È la linea degli industriali, mentre tra artigiani e contadini cresce il mito di scozzesi e catalani. «Rispetto al popolo italiano — dice Franco Rocchetta, storico dell’indipendentismo — siamo un’altra cosa. E ora stiamo per riconquistare per via democratica e dall’interno l’auto-organizzazione comunitaria, che altri hanno ottenuto con guerre e pressioni straniere ». In Regione servono 26 voti, la maggioranza vede quota 29, ma qualcuno potrebbe scoprirsi in extremis un raffreddore. Così a Grantorto il sindaco Luciano Gavin resta in ufficio anche se è notte. Telefona, aspetta e intanto mostra un assegno: 250 euro per illuminare i presepi del paese. «I trasferimenti statali sono crollati — dice — questi “schei” sono miei. Ma stavolta ne cavemo na spissa, ci togliamo una soddisfazione. Aggiunge: «Chi sta zitto non ottiene mai niente».
Repubblica – 25 novembre 2016