Anche i pesci hanno la loro carta d’identità. È, infatti, possibile rilevare una vera e propria «impronta digitale» di varie specie ittiche e smascherare le principali frodi legate alla sostituzione di razze più pregiate con altre di valore decisamente inferiore. Si tratta di Fïsh Track, progetto messo a punto da dipartimento di Scienza della Vita dell’Università di Siena e sostenuto dalla regione Toscana.
Il problema più rilevante si presenta nel caso di pesci importati in Italia, già puliti e sfilettati o in quello di prodotti alimentari preparati, dove il processo di lavorazione stesso impedisce il riconoscimento della specie utilizzata. «Il dna può essere utilizzato come un’impronta digitale che permette, nel prodotto finito, di risalire con certezza assoluta alle materie prime utilizzate, certificando la presenza di una specie piuttosto che di un’altra», spiega Giacomo Spinsanti dell’Università di Siena». La procedura, definita Dna Barcodingc/ie consente di riconoscere anche pesci pescati da quelli provenienti da acquacolture, è una metodologia di livello internazionale che ha permesso, attraverso l’istituzione di un consorzio inter-universitario, la creazione di una banca dati on line che collega in modo univoco una specie ad una determinata sequenza. Gli esempi più frequenti e dannosi di sostituzione di specie sono il pangasio del Mekong o la brotula spacciati per cernia, l’halibut dell’Atlantico per sogliola, lo squalo per pesce spada, il palombo per spinarolo o verdesca o smeriglio, o ancora, tipi diversi di pesci africani venduti come pesce persico.
Andrea Sette – Italia Oggi – 30 settembre 2015