di Andrea Bassi, dal Messaggero. Il tema è delicato. Un anno fa, in una delle prime bozze del decreto con i tagli di spesa necessari a finanziare il bonus da 80 euro, era spuntata una norma che aveva fatto gelare il sangue a molti dirigenti della Pa. Accanto al tetto dei 240 mila euro massimi di stipendio consentiti a chiunque avesse un rapporto di lavoro o di consulenza con il pubblico, erano spuntati dei limiti anche agli stipendi dei dirigenti di rango meno elevato. Un tetto di 185 mila euro a quelli di prima fascia e di circa 110 mila per tutti gli altri. Non se ne era fatto poi nulla. Matteo Renzi decise che la questione sarebbe stata affrontata nella più complessiva riforma della Pubblica amministrazione. Il momento è arrivato. Domani la Commissione Affari Costituzionali del Senato affronterà gli ultimi nodi della delega sulla Pa. Quello più spinoso rimasto sul tappeto è l’articolo 10, la riforma della dirigenza pubblica appunto. I principi cardine sono stabiliti.
IL CORSO-CONCORSO
Alla dirigenza pubblica si accederà solo in due modi: per corso-concorso o per concorso pubblico. Nel primo caso si entrerà nell’amministrazione come funzionari, poi dopo quattro anni e dopo un esame, si potrà diventare dirigenti.
Chi invece entrerà per concorso sarà assunto a tempo determinato. Dopo tre anni potrà sostenere un esame per essere stabilizzato. Scompariranno le fasce, la prima e la seconda. Ci sarà un unico ruolo dove finiranno tutti i dirigenti, quelli dei ministeri, del Fisco, dell’Inps, anche dell’Istat e degli enti di ricerca.
LA COMMISSIONE
II principio più volte espresso dal ministro Marianna Madia è che i dirigenti saranno della Repubblica e non proprietà privata delle singole amministrazioni. Si potrà, anzi probabilmente si dovrà, passare da un’amministrazione all’altra. Molto potere finirà nelle mani della «Commissione per la dirigenza statale», un organismo indipendente che vigilerà sulla correttezza del conferimento degli incarichi ma che detterà anche dei criteri generali alle singole amministrazioni da seguire quando vengono selezionati i dirigenti. Questi ultimi, poi, saranno licenziabili. Ogni tre anni i dirigenti dovranno ruotare nei loro incarichi. La loro carriera sarà legata alla loro valutazione. Chi non riuscirà ad ottenere un incarico continuerà a percepire solo la parte fissa del suo stipendio. Dopo un certo numero di anni senza incarico (potrebbero essere tra 3 e 5) il rapporto di lavoro potrà essere sciolto. Ma veniamo al nodo centrale: la retribuzione.
IL TRATTAMENTO
La riforma prevede la « definizione di limiti assoluti del trattamento economico complessivo». Un tetto, come detto, già esiste: è quello dei 240 mila euro. I decreti attuativi della delega, dunque, dovranno indicare nuovi tetti, presumibilmente più bassi di quello a 240 mila, a seconda della tipologia di incarico. Un tassello che si sposa con la necessità di reperire risorse da destinare alla spending review. Dal taglio degli emolumenti ai dirigenti, dovrebbero arrivare risparmi fino a 500 milioni di euro. Molto cambierà anche per la struttura della retribuzione. L’indennità di posizione confluirà nella retribuzione fissa. Quella di risultato, i cosiddetti premi, dovrà essere legata non solo ad obiettivi individuali per singolo dirigente, ma anche ad obiettivi assegnati all’intera amministrazione. Non ci saranno più nemmeno premi a pioggia. La delega prevede che questi potranno essere assegnati al massimo ad un decimo dei dirigenti. Domani si saprà se il piano del governo resisterà al prevedibile assalto del parlamento.
Andrea Bassi – Il Messaggero – 30 marzo 2015