Allevare animali da reddito non conviene quasi più da anni: i costi, in particolare per l’alimentazione, continuano ad aumentare, mentre i consumi di carni e salumi sono in calo, o segnano comunque il passo. E tra i settori zootecnici, a pagare il conto più salato è quello delle carni bovine.
I dati Ismea-Nielsen presentati all’assemblea annuale dell’Uniceb (Unione nazionale importatori esportatori industriali di carni e bestiame) che si è tenuta giovedì a Roma indicano che tra gennaio e settembre, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, i consumi di prosciutti e salumi sono rimasti fermi (-0,1%); quelli di carni fresche, in generale, sono diminuiti del 5,6 per cento.
L’orientamento è confermato dal trend degli acquisti nel quinquennio 2009-2014, durante il quale la «penetrazione della carne nelle famiglie italiane» è risultata stabile (-0,2%), ma con alcune differenze: +0,3% per quelle di pollame, -1,1% per quella suina, -2,2% per la bovina. E mentre la spesa per la carne di polli e tacchini è cresciuta del 10%, quella di maiale del 4,1%, la carne bovina è crollata del 15 per cento.
Complice l’onda lunga di una crisi che, al momento, induce dunque i consumatori a privilegiare ancora il fattore prezzo. Ma anche di scandali e disinformazione che spesso creano allarmismi ingiustificati su potenziali rischi per la salute. Ultimo in ordine di tempo, quello sollevato il mese scorso da uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità sui possibili danni derivanti da un’eccessiva ingestione di carni.
Un allarme del tutto inutile e dannoso, sottolinea l’Uniceb. «Le carni – spiega il presidente, Carlo Siciliani – sono alimenti sicuri, che possono tranquillamente essere presenti anche nella dieta mediterranea, ma che a causa di una distorta informazione in quei giorni hanno subito un crollo immediato dei consumi del 30%. E adesso per recuperare ci vorrà del tempo».
«Un attacco al mondo delle proteine animali», lo definisce il segretario generale dell’associazione, Clara Fossato. Ricordando che il settore delle carni in Italia, nel complesso, garantisce il 15% del fatturato agroalimentare, per un valore di oltre 5,8 miliardi generato solo dalla filiera bovina.
All’origine, oltre ai costi elevati e alla scarsa disponibilità di superfici a pascolo per allevare gli animali, resta però un pesante deficit di approvvigionamento (la produzione non copre il 60% della domanda). E il bovino da carne, in particolare, arriva a incidere per il 45% sul saldo negativo della nostra bilancia agroalimentare.
Certo, nei primi sette mesi di quest’anno le importazioni, sia di capi, che di carni, fresche e refrigerate, risultano in calo di quasi il 6 per cento. E le macellazioni, in base a elaborazioni Uniceb su dati Istat, fino ad agosto sono aumentate del 9,6 per cento. Ma la stessa associazione spiega che la produzione negli ultimi dieci anni è diminuita di oltre il 10%, e che i positivi dati congiunturali non devono trarre in inganno. Perché ad aumentare è soprattutto la disponibilità di carne ottenuta da vacche uscite dal circuito produttivo del latte. Con un’impennata del 32% nei primi otto mesi dell’anno che, verosimilmente, non porteranno a un’inversione di tendenza del deficit strutturale del settore.
Massimo Agostini – Il Sole 24 Ore – 5 dicembre 2015