Il Sole 24 Ore. Prosciutto crudo di Parma Dop. Il processo di stagionatura comporta alti costi energetici, inoltre è aumentato il prezzo delle cosce fresche: una combinazione che determina il calo produttivo
A ottobre la quantità di prodotti alimentari acquistati dagli italiani è diminuita del 7,9% ma, secondo l’Istat, gli euro spesi sono stati il 4,7% in più. I consumi di carne suina – sia i tagli freschi che i salumi – si prestano bene a descrivere gli effetti della crisi sulle scelte delle famiglie. Con le dinamiche di fondo che sono simili a quelle che si riscontrano in molti altri settori dell’alimentare (e non) con costi produttivi in forte aumento e la conseguente inflazione che condiziona i consumi, “spostandoli” su prodotti più economici per compensare i rincari.
Non è un caso quindi che i tagli freschi di maiale siano l’unico tipo di carne che registra un incremento delle quantità acquistate, perché più economico rispetto alla carne bovina e al pollame: secondo l’ultimo rapporto Ismea, le vendite in volume sono cresciute del 4,6% da gennaio a settembre, per un aumento della spesa in valore (cioè in sostanza degli euro pagati complessivamente) del 10,3 per cento. La carne bovina ha visto aumentare invece la spesa del 4% in valore ma in quantità è diminuita del 4,5%; la spesa per la carne bianca è aumentata del 15%, ma ha perso quasi il 2% in quantità. Il motivo? I prezzi della carne suina sono più bassi e sono cresciuti meno delle carni bianche (dal 18 al 25%) e delle rosse (7-8%).
Ma i vantaggi per gli allevatori e la filiera italiana sono limitati. Da un lato perché i costi di produzione elevati – rileva Ismea – sono «solo in parte compensati dai maggiori ricavi». Un trend che potrebbe «continuare a incidere nei prossimi mesi sulle scelte di riduzione del patrimonio zootecnico da parte degli allevatori nazionali», dopo che già nei primi 10 mesi dell’anno è stato registrato un calo produttivo di oltre il 5% rispetto al 2021 sia in Italia che a livello internazionale. Dall’altro perché la ricerca del minor prezzo è coperta soprattutto da carne importata (in aumento del 17,6% in valore contro il +2% dell’export). La suinicoltura italiana è infatti ormai destinata soprattutto ai salumi e «il 75% della carne macellata entra nel circuito Dop».
Le quotazioni di questi tagli sono cresciute molto nell’ultimo anno, ma rischiano di non essere più “un’assicurazione” per gli allevatori: nei salumi infatti gli acquisti sono pressoché stabili (+0,4% in quantità per una spesa cresciuta del +3,9%) ma «anche in considerazione dell’ampia gamma di prodotti e della possibilità di scegliere quello più conveniente», nota Ismea. Ecco quindi che la mortadella venduta in negozi e supermercati è cresciuta del 4,3% e il Prosciutto di Parma Dop ha invece perso quasi l’11% (vedi altro articolo in pagina): «L’aumento di prezzo del 5% da gennaio a settembre è andato a inserirsi su un livello considerato premium per la categoria – spiegano da Ismea – costringendo i consumatori delle fasce più deboli a ridurre significativamente i volumi nel carrello», con una riduzione di spesa di circa il 6 per cento.
Intanto i produttori di salumi hanno visto affiancarsi agli aumenti dell’energia quelli dei listini della carne. Restando sul prosciutto, secondo Ismea, le quotazioni delle «cosce fresche destinate al circuito tutelato» sono aumentate del 24%. «Questa situazione colpisce soprattutto le Dop – conferma Davide Calderone, direttore di Assica, l’associazione che raggruppa le imprese dei salumi che generano un fatturato di circa 8 miliardi –. Decidere di stagionare un prosciutto oggi è un salto nel buio, perché bisogna scommettere tra prezzi remunerativi tra un anno e mezzo. I consumi finora però tengono anche se c’è uno spostamento sui valori più bassi e verso i discount, soprattutto da settembre, dopo un’estate in cui le famiglie erano meno preoccupate. Inoltre la ristorazione sta tornando ai livelli pre Covid, con una quota sul giro d’affari del 20-25% che comunque non era stata completamente compensata dalla Gdo durante i periodi di chiusure e limitazioni anti Covid».
Un punto fermo rimane l’export: «I risultati sia in quantità che in valore restano in crescita seppur di poco visti gli ottimi risultati del recente passato – continua Calderone – e nonostante la congiuntura internazionale e i blocchi all’import stabiliti dai Paesi asiatici a causa del rischio Psa (peste suina africana, ndr) che ci sta costando 20 milioni al mese».
«Se è vero che la situazione è leggermente migliorata rispetto a un anno fa, quando l’abbondanza di offerta a livello mondiale abbatteva i prezzi – dice Giovanna Parmigiani, membro della giunta nazionale di Confagricoltura e allevatrice di suini – la stessa Ismea afferma che l’aumento dei listini non ripaga quello dei costi, che sono cresciuti di oltre il 30 per cento. Il fatto che la produzione nazionale sia scesa è la chiara dimostrazione delle difficoltà soprattutto dei piccoli, che non hanno le capacità finanziare per resistere ai periodi più difficili e vengono spesso inglobati dalle realtà più grandi. Inoltre si va verso regole sempre più stringenti sulle emissioni inquinanti nonostante tanto sia stato già fatto fino a oggi. E questo ovviamente vuol dire necessità di più investimenti ma anche costi dovuti alla burocrazia. Per non parlare poi della grande incertezza legata al rischio Psa: ormai è passato un anno dal primo allarme e non è stato fatto ancora abbastanza ad esempio per il contenimento dei cinghiali, che sono il veicolo che potrebbe portare il contagio dentro gli allevamenti, con conseguenze devastanti».