Repubblica. La carne non-carne, finanziariamente parlando, è molto appetitosa. Sia che si parli di quella “coltivata” a partire da alcune cellule staminali animali che di quella costruita con proteine vegetali, tutti sembrano volerne un pezzettino convinti che il banchetto, quando inizierà, sarà una crapula. La cosa più nuova è la curated meat, nota anche come “carne in vitro”, “pulita” o con una manciata di altri appellativi che rispondono ognuno a una diversa sfumatura di sensibilità (se dici “pulita” sottintendi che quella tradizionale sia sporca e gli allevatori si offendono). Con una biopsia estrai una cellula dall’animale che vuoi replicare, la metti in bioreattori, grossi cilindri di acciaio simili a quelli per fermentare la birra, e la fai crescere in un brodo di nutrienti. Solo negli ultimi due anni, ha calcolato Crunchbase, il settore ha ricevuto 2 miliardi di dollari di investimenti (il mercato della carne fatta con le proteine di piselli o soia ne vale già 29 miliardi e, stando a uno studio Bloomberg, raggiungerà i 162 entro il 2030).
Il primo hamburger del genere, partorito da un gruppo di ricerca capitanato da Mark Post dell’università di Maastricht, è stato presentato nel 2013: ci sono voluti due anni per realizzarlo, alla modica cifra di 300 mila dollari. Però, solo sei anni dopo, un ristorante di Singapore (il primo, e al momento unico Paese al mondo ad aver autorizzato la commercializzazione) serviva bocconcini di pollo ottenuto in laboratorio dall’americana Eat Just – nessuna parentela con Just Eat – nei dintorni dei 17 dollari. Il suo fondatore, Josh Tetrick, in un’intervista, immagina un futuro dove la troveremo sia nei ristoranti stellati che dai kebabbari ma, avverte, «potrebbero volerci 300 come 30 anni», dipende dalle autorizzazioni governative e dal cambiamento culturale nella testa dei consumatori. La scommessa, ovviamente, è che i prezzi crollino. E uno studio recente della società di consulenza CE Delft arriva a ipotizzare che, entro la fine del decennio, si potrà comprare sui 5 dollari al chilo e a quel punto la concorrenza con la carne vera si farebbe seria.
Perché dal punto di vista del marketing la carne finta parte ambientalmente avvantaggiata e, volendo forzare la mano, potrebbe quasi arruolare Greta Thunberg tra i suoi potenziali testimonial. La premessa è che gli animali allevati per il cibo sono responsabili del 14,5 per cento delle emissioni globali, quantifica la Fao. Nel caso della carne vegetale, che già si trova nei ristoranti e nei supermercati, i risparmi sono di circa il 90 per cento quanto a gas serra, consumo di acqua e di terra. Mentre per quella in vitro, che pur sempre prevede qualche animale da cui estrarre le cellule, la contabilità verde è più difficile ma Charles Godfray, direttore del programma sul futuro del cibo a Oxford, assicura che il risparmio sarebbe «molto considerevole ». Una promozione che intercetta lo spirito del tempo e spiega perché questa nicchia potrebbe diventare affollata come certi allevamenti intensivi. Sarebbero un centinaio le start up che ci stanno puntando, a giudicare da un censimento recente del Good Food Institute, che però non fa segreto di essere militante. Ma basta dare un’occhiata alla pagina curated meat di Wikipedia per capire quanto lunga e in continuo aggiornamento sia la lista dei partecipanti. Oggi i principali centri dell’innovazione sono la Silicon valley, Israele e l’Olanda. Ma la notizia con implicazioni più grandi viene dalla Cina. Nei giorni scorsi, presentando il piano quinquennale, il ministero dell’agricoltura ha per la prima volta incluso la carne in vitro e altri cibi del futuro come la carne vegetale nelle proprie linee guida per la «sicurezza alimentare». Considerato che i suoi consumi di carne sono triplicati dal 1980 e oggi ne consuma quasi un terzo di quella mondiale è una novità che, da sola, potrebbe rivoluzionare il mercato. Senza contare che, da principale inquinatore di gas serra, consente a Pechino di fare bella figura impegnandosi a “de-carnizzare” i suoi consumi. Tra i più entusiasti l’americano Tetrick, mister Eat Just, a Time : «È una, se non la più importante svolta nella storia delle proteine alternative».
Il commento/ Ma il futuro si trova nei pascoli non in laboratorio
di Carlo Petrini
Penso che la carne sintetica sarà tra i trend alimentari più dibattuti del 2022. Un alimento prodotto in laboratorio, e che fino a poco fa sembrava perfetto per un film di fantascienza. Ciò che ora rende la questione più reale è la possibilità che entro il 2030 il costo della carne sintetica si eguagli a quella animale; rendendola un prodotto appetibile per il mercato. La notizia viene accolta da molti con entusiasmo. Eviterebbe infatti la macellazione di molti animali e sarebbe la panacea per i danni ambientali — dalla deforestazione, all’eccessivo consumo di suolo e acqua, al taglio di emissioni (forse) — derivanti dalla produzione in larga scala di crescenti quantità di prodotti di origine animale. Tutto ciò senza che a noi vengano richieste modifiche alle nostre abitudini alimentari. Si tratterebbe però di una soluzione riduzionistica e che concentrerebbe ulteriormente il governo dei nostri stomaci nelle mani di pochissimi attori. Dietro alla carne in vitro ci sono infatti multinazionali dell’alimentare (come Cargill, Tyson Foods, e Nestlé, alcuni dei quali sono leader della zootecnia industrializzata e del commercio globale della carne), fondi di investimento e esponenti della Silicon Valley. Di certo non paladini dell’ambiente e della giustizia sociale, ma soggetti mossi dalla ricerca di grandi profitti e che identificano la tecnologia come l’unica soluzione possibile.
La tecnologia è senz’altro importante, purché dialoghi con quanto non è ancora stato cancellato dall’agroindustria (biodiversità, saperi, metodi tradizionali), e che ha garantito nel tempo l’equilibrio uomo-natura. Mi vengono in mente molti allevamenti di piccola scala dove gli animali sono ancora una risorsa, e non una fonte di esternalità negative come invece avviene nella zootecnia industrializzata. Realtà in cui gli animali non trascorrono la loro vita in spazi angusti, alimentati a mangimi a base di soia ogm, ma sono liberi di pascolare e soddisfare i propri bisogni.
Dove molto spesso l’allevamento si sviluppa insieme all’agricoltura, a formare un sistema a ciclo chiuso di materia ed energia; senza scarti né alterazioni dell’ecosistema.
Credo che sia questa la direzione da intraprendere nel futuro. L’impatto negativo dell’attuale sistema di produzione dominante della carne è evidente, così come anche la necessità di una transizione proteica dei nostri sistemi alimentari verso opzioni più sostenibili e vegetali. La soluzione però non va ricercata rifiutando l’allevamento, ma cercando di cambiarlo. E questo viene fatto indirizzando le risorse economiche delle politiche agricole (che non mancano) a chi mette in atto pratiche ecologicamente e socialmente sostenibili.
Educando a un cambio di dieta verso un minor consumo di carne, di migliore qualità e diversità (di specie, tagli, preparazioni). E sì, anche favorendo l’innovazione tecnologica, a patto però che sia regolamentata in modo ferreo e che i cittadini siano informati con etichettature chiare, che rendano conto del sistema di produzione.
Perché il cibo è prima di tutto un diritto universale, e come tale la sua produzione deve sempre essere indirizzata al bene comune e non frutto di interessi sommersi.