L’Italia delle occasioni perse che, per cifre irrisorie, penalizza la ricerca, la sanità, gli interessi primari dei cittadini italiani. Ilaria Capua, Senior Fellow of Global Health della Johns Hopkins University–SAIS Europe, condanna con forza le scelte del governo in materia sanitaria.
Il governo ha deciso di non rifinanziare la Fondazione Ebri fondata dal premio Nobel Rita Levi Montalcini e impegnata nelle ricerche sul cervello. Miopia, disinteresse o ignoranza da parte dell’esecutivo?
«La Fondazione Ebri è un simbolo per l’Italia. È stata voluta dall’unico premio Nobel per la Medicina donna italiana e, quindi, senza entrare nel merito della decisione, non rifinanziare senza motivazione esplicita l’ente e per di più senza aver informato i vertici dell’istituto – come ha raccontato il presidente Cattaneo – è un vero peccato. Il governo e il Parlamento non mandano segnali positivi nei confronti della ricerca e in questo caso particolare nei confronti del settore della ricerca biomedica sul cervello. Siamo un Paese che diventa sempre più anziano, capire meglio come funziona il cervello è importante. Le malattie degenerative del sistema nervoso centrale rappresentano una grande preoccupazione per le famiglie e rendono gli anziani non autosufficienti con gravi conseguenze sulle finanze dei familiari e sul servizio sanitario nazionale».
Vale la pena mettere difficoltà un ente che svolge una funzione così importante per risparmiare un milione?
«Francamente mi sembra molto strano. Un milione non è una cifra esorbitante per l’Italia soprattutto se si pensa a quanto costa la ricerca in generale e al budget che il Paese destina all’investimento nella ricerca. È un taglio simbolico però che indica scarsa attenzione a questo settore che invece è di primaria importanza».
Non è l’unico segnale di scarsa attenzione nei confronti della scienza e della medicina. Tra ipotesi di tagli alle pensioni e carichi eccessivi di lavoro, sono in aumento i medici che vorrebbero cambiare mestiere o che, se tornassero indietro, sceglierebbero un lavoro diverso. Che cosa ne pensa?
«Quando tanti anni fa sono entrata a far parte del Servizio sanitario nazionale, per noi giovani lavorare per lo Stato era un onore e un modo di restituire professionalità al Paese che ci aveva permesso di formarci e di fornire un servizio essenziale per i cittadini. La pandemia ha messo duramente alla prova il sistema sanitario pubblico: tante persone che hanno studiato per diventare medici, infermieri o in generale operatori della sanità non avrebbero mai immaginato di trovarsi di fronte a una crisi sanitaria così grave che li avrebbe costretti a scelte difficili come quando si sono trovati a dover decidere a chi dare l’ossigeno disponibile. Dopo uno stress così grande sul sistema, si immaginava che sarebbe stata riconosciuta l’importanza del loro ruolo. Invece sono stati delusi. Pensioni e stipendi degli operatori sanitari non dovrebbero essere messi in discussione: se il servizio pubblico non è in grado di trattenere i suoi professionisti più capaci si impoverisce tutto il sistema Paese. Ridurre i fondi alla sanità rappresenta un’occasione persa per il governo di mostrare il suo sostegno a questi servizi essenziali per i cittadini».
Il governo ha anche ridotto le agevolazioni per i cervelli che intendono rientrare in Italia. Anche questo è un segnale poco incoraggiante per la ricerca italiana?
«Sì, è un’altra occasione persa per risparmiare una cifra irrisoria. Per un Paese come l’Italia che ha problemi demografici e di crescita economica, e che è drammaticamente affetto dalla fuga dei suoi figli più qualificati verso l’estero, è un autogol ridurre le agevolazioni per farli rientrare. L’Italia forma molto bene i suoi operatori sanitari ma molti operatori si trovano costretti ad andare altrove per la scarsa competitività dei salari. Per l’Italia è un impoverimento crescente di risorse umane e una perdita netta perché formare questi professionisti costa allo Stato e alle famiglie centinaia di migliaia di euro».
Le difficoltà che incontrano gli operatori sanitari in Italia sono ancora più pesanti per le donne, penalizzate in termini di carriera e di stipendio. Le donne italiane devono innanzitutto pensare alla maternità, afferma la senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni.
«Non dovrebbe esistere la dicotomia tra maternità e carriera. Come gli uomini, anche le donne hanno il diritto di avere figli ed essere professioniste di alto livello che si impegnano a cambiare il mondo. La fragilità che ci porta a essere uno dei Paesi con la natalità più bassa è anche legata al fatto che non esistono le infrastrutture in grado di sostenere la maternità come in altri Paesi tra cui la Francia. Dare alle nostre figlie la possibilità di essere donne che contribuiscono alla crescita del Paese dovrebbe essere uno degli obiettivi più urgenti da conquistare, altrimenti rischiamo di tornare indietro ai tempi di Rita Levi Montalcini quando le laureate erano poche e le donne che potevano aspirare a una carriera gratificante e di successo erano pochissime».
Non suona contraddittorio che certe parole arrivino da una donna che appartiene al partito che ha espresso la prima donna presidente del Consiglio?
«Ci si aspetterebbe da una donna volitiva e piena di energie come la prima premier italiana una spinta e più sostegno nei confronti delle donne che intendono seguire il suo modello. Si può essere d’accordo o no con Giorgia Meloni ma se lei è riuscita ad avere una carriera così brillante e quindi incarna e crede nell’apporto femminile alla società, perché non sostenere le ragazze che vogliono studiare ed affermarsi senza dover scegliere tra lavoro e maternità?». —