Massimiliano Atelli, Il Sole 24 Ore. Non esistono possibilità di far progredire il sistema Italia, per condurlo a un assetto più avanzato, senza l’attivo contributo di una Pubblica amministrazione (Pa) differente da quella odierna. Nel mettervi mano, occorre muovere dalla consapevolezza che è però necessario farlo a modo e misura, per evitare di procurare l’effetto di aggiungere solo ulteriore incertezza e disorientamento, anche all’interno dell’apparato pubblico. In particolare, è necessario procedervi non facendo prima un passo avanti e poi due indietro, in modo contraddittorio.
Fra semplice e semplicistico, il passo è infatti breve. Ne abbiamo chiari esempi. Risparmiare sulla spesa pubblica bloccando in modo generalizzato il turnover, come è stato fatto per oltre un decennio, produce – del tutto prevedibilmente – effetti, che sono quelli odierni: nei ruoli della Pa, anche centrale, mancano migliaia di professionalità, a competenza specifica (solo per limitarci alla sanità, si stima che tra il 2009 e il 2019 il personale sanitario sia calato di oltre 45mila unità, e che, fra il 2020 e il 2024, andranno in pensione oltre 35mila medici e oltre 58mila infermieri).
L’introduzione e il mantenimento di algoritmi fondati su equazioni semplificatorie (la dotazione complessiva di personale a un dato istante – identico per tutta la Pa – come paradigma onnivalente, quasi esistesse una sorta di “ottimo per sempre”), sempre votate al dato quantitativo e mai attente a quello qualitativo (mai, cioè, programmazioni – per tempo – per profili specifici, su ingegneri, ragionieri, infermieri, medici, etc.) stanno mettendo oggi alle corde il sistema pubblico. E con esso, la riuscita del Pnrr. È quanto sta accadendo, al di là delle migliori intenzioni di chi nella Pa vi lavora, e anche di un ricambio generazionale che in parte c’è stato (sebbene dovuto essenzialmente più al collocamento a riposo di alcuni e nel contempo all’avanzamento di altri che erano già nei ruoli, in seconda fila, anziché all’arrivo, selettivo e mirato, di forze fresche dall’esterno).
Tagli orizzontali negli organici (e, conseguentemente, nei piani di reclutamento) hanno fortemente depotenziato la Pa, che oggi, fra l’altro, è sempre più spesso chiamata a misurarsi con problemi che possono essere affrontati soltanto integrando le competenze. Non solo con i giuristi e neppure soltanto con ingegneri o geologi o medici, ma, piuttosto, integrando l’expertise degli uni e degli altri.
Occorre cambiare, dunque, il modo stesso di pensare ai collocamenti a riposo: se li si intende soltanto come un’opportunità di risparmio (e non anche come – al contempo – la creazione di un vuoto di competenza specifica, da gestire) questo Paese non andrà lontano.
Sulle politiche di reclutamento, soprattutto in alcuni settori dell’amministrazione, c’è allora bisogno di un robusto scatto in avanti, a iniziare da una approfondita analisi dei fabbisogni e da una congrua programmazione. La questione investe anche il sistema formativo, perché il reclutamento divenuto asfittico ha inciso sulle vocazioni agli impieghi nel settore pubblico e, di rimbalzo, sull’offerta formativa.
L’esigenza di tornare a ripensare modi e dinamiche del reclutamento nella Pa, nella difficile contingenza che il Paese sta attraversando, viene prima di ogni possibile contraria considerazione – che rischierebbe di suonare come astratto moralismo, quasi un malinteso senso (acriticamente) imitativo del “frugale” di ispirazione nordeuropea – sulla comparazione (fra l’altro, non di rado operata senza elementi sufficientemente precisi per effettuare un raffronto compiuto) con le esperienze degli Stati Ue più simili a noi.
La comparazione ha un senso, ed è anzi doverosa, a parità di condizioni di contesto. Ma oggi le condizioni di contesto non sono pari, e l’Italia è in emergenza (insieme ad altri, d’accordo, ma probabilmente più di altri).
La tempesta perfetta che oggi attraversa e scuote più continenti ci ha trovati impreparati, e con una Pa indebolita, per effetto degli errori di ieri dovuti a soluzioni semplicistiche. Occorre non perseverare, in questi errori, passando da un modello (fallito) che ha generalizzato tutto (gli asseriti risparmi di ieri, che sono diventati i problemi di carenza di oggi), a uno che operi, all’opposto, con congrua selettività. Non più, dunque, assuefarsi all’equazione per cui un collocamento a riposo è sempre un punto di arrivo e mai anche di partenza.
In sostanza, occorre preferire sempre, ai ragionamenti impostati sull’assumere una o più “unità di personale” genericamente intese, quelli invece facenti leva, con approccio selettivo, sul reclutare “il profilo specifico” che volta per volta manca. Abbandonare il primo schema per abbracciare il secondo significa, a ben vedere, rinunciare – dopo oltre un decennio – alla comfort zone della non scelta. La politica è – per sua natura – scegliere, operare selettivamente, definire un ordine di priorità. Deve tornare a esserlo.