Il Sole 24 Ore lunedì. Camici bianchi con poche tutele. Il Covid rilancia lo scudo penale. L’idea è quella di circoscrivere tutte le responsabilità da virus alle ipotesi di una colpa grave non generica. Deroga alla legge Gelli. Vanno però protetti i pazienti creando un sistema di indennizzo ad hoc
Se anche supereremo presto la lunga ondata di Covid in corso, rischiamo di riviverla nei tribunali. S’intuisce dalle polemiche sulle lacune mostrate dal sistema sanitario italiano. Così si riaffaccia l’idea di uno scudo penale per operatori e strutture (già discusso un anno fa, in piena prima ondata) in deroga alla legge Gelli (24/2017), che però a quattro anni dall’entrata in vigore manca di un Dm attuativo importante.
Il Dm riguarda la responsabilità, che con il Covid è diventata parola d’ordine: non in senso etico, ma soprattutto come strumento inquisitorio, per individuare i profili penali, civili e amministrativi, i tre previsti dalla stessa legge. Basti pensare che oggi il numero di ricoverati in terapia intensiva sfiora i 29mila.
Lo scudo penale
La pandemia ha riacutizzato il problema della protezione dei sanitari, più che mai in prima linea, da un uso distorto delle azioni di responsabilità. Ancora non possono dirsi definite, per il Covid, quelle linee guida o buone pratiche che, secondo la legge Gelli, sono il parametro per valutare la condotta degli operatori. Di qui la spinta verso una norma di emergenza per uno scudo penale – più concreta per chi somministra i vaccini (si veda il servizio qui a destra) – e civile.
L’idea è quella di circoscrivere tutte le responsabilità correlate al Covid alle ipotesi di una colpa grave non generica, da valutare alla luce di conoscenze e risorse disponibili al momento. Ciò pare coordinarsi con i princìpi della legge Gelli e dovrebbe riguardare non solo i medici ma tutti gli operatori sanitari. Come richiesto da più parti, la stessa protezione dalle responsabilità dovrebbe valere per le strutture, per le difficoltà organizzative eccezionali. Quelle che hanno costretto, per esempio, a impiegare specialisti in reparti estranei alla loro specializzazione: un caso in cui le polizze non coprono, ma le assicurazioni – data l’emergenza – hanno rinunciato a far valere questa clausola.
Se da un lato sono forse maturi i tempi per un intervento normativo a tutela degli operatori, dall’altro c’è il rischio di lasciare “scoperte” le vittime di errori molto gravi, cosa che oggi crea anche un forte allarme sociale.
Una soluzione potrebbe consistere nella creazione di un sistema di fondi di indennizzo per sole colpe gravi in tempo di pandemia. Uno strumento solidale, finanziato in modo sostenibile da tutti i beneficiari (operatori e strutture) e da risorse pubbliche. Non un modello che vada solo alla ricerca di responsabili per pretendere risarcimenti a costi altissimi e oggi difficilmente sopportabili (da loro stessi e dalle assicurazioni). Il modello no fault della legge 210/1992, proprio in tema di reazioni avverse da vaccini, potrebbe essere uno spunto.
Il Dm che manca
Le criticità di un sistema di sola responsabilità si vedono nella storia del decreto del Mise attuativo della legge Gelli. Il 21 gennaio è finalmente andato all’esame della Conferenza Stato Regioni, ma non è passato e non è stato rimesso all’ordine del giorno (si spera nella prossima seduta). Due i punti caldi di questo decreto. Il primo è quello sulla disciplina delle «misure analoghe» (la struttura paga il danno in proprio, in alternativa all’assicurazione obbligatoria). Si discute sulle regole da imporre alle strutture sanitarie per garantire che ci siano le risorse per risarcire adeguatamente, accantonando riserve obbligatorie congrue. La via dell’assunzione del rischio in proprio, risparmiando sui costi delle polizze, non può tradursi in un pregiudizio per il paziente, che deve poter contare sulla solvibilità dell’ente in caso di danno.
La seconda questione e la regola che mette in relazione l’operatività della polizza agli obblighi di aggiornamento professionale previsti dalle norme: la copertura assicurativa non opererebbe se il sanitario cui è attribuita la responsabilità di un danno al paziente non ha maturato una quota minima di crediti.
Le responsabilità di chi vaccina
Con l’emergenza, i sanitari devono far attenzione anche alle polizze: non tutte coprono specificamente le responsabilità per la somministrazione di vaccini, anche se le compagnie più attente hanno rassicurato sulle loro. Alcuni sindacati del comparto hanno suggerito integrazioni o nuove stipule.
Va, però, detto che il rischio è minimo: lo statuto della responsabilità sanitaria (articoli 1, 3, 5, 6 e 7 della legge 24/2017) non considera responsabile chi si sia comportato correttamente e abbia diligentemente attuato linee guide e buone pratiche assistenziali. E nel somministrare vaccini è difficile violare le semplicissime istruzioni.