In campo c’è l’Onu e ora anche la Ue. La lotta allo spreco alimentare è entrata a pieno titolo nell’agenda politica mondiale, ma la strada da percorrere è tutta in salita.
A livello globale, secondo la Fao, ogni anno vengono sperperate tra 1,3 e 1,6 miliardi di tonnellate di cibo, circa il 14% del totale, che potrebbero sfamare oltre un miliardo di persone. L’impatto è pesante anche per il pianeta: queste risorse non utilizzate sono responsabili dell’8-10% delle emissioni globali di anidride carbonica. Ecco perché ridurre lo spreco diventa un imperativo obbligato per la sicurezza alimentare, il clima e la sostenibilità del sistema agroalimentare.
Al momento però è ancora lontano il traguardo fissato dall’Agenda Onu 2030 (target 12.3) che punta a dimezzarlo. Per accelerare il passo nella Ue si muove anche Bruxelles. All’inizio del mese la Commissione europea ha inserito nuove misure ad hoc nel pacchetto di proposte di revisione della direttiva quadro sui rifiuti del 2008, in linea con i principi del Green Deal.
Bruxelles chiede di introdurre obiettivi nazionali vincolanti per ridurre entro il 2030 (rispetto al 2020) gli sprechi alimentari pro capite del 30% in ristoranti, mense e famiglie e del 10% nell’industria alimentare. Quasi 59 milioni di tonnellate di cibo (pari a 131 kg per abitante) – afferma l’esecutivo Ue – vengono sprecate ogni anno nei Ventisette, con un valore di mercato stimato di 132 miliardi di euro. Oltre la metà (53%) in media sono generate dalle famiglie, seguite dal settore della trasformazione e dal manifatturiero (20%). Tanto per rendere l’idea, se lo spreco alimentare fosse uno Stato membro sarebbe il quinto più grande responsabile di emissioni di gas serra. Secondo le stime della Commissione raggiungere quegli obiettivi significherebbe ottenere risparmi per 400 euro l’anno per una famiglia tipo di quattro persone. La proposta – che prevede anche una valutazione dei progressi compiuti nel 2027 – dovrà ora passare al vaglio di Consiglio Ue ed Europarlamento.
«L’iniziativa è un passo avanti: ora occorrerà attuare misure concrete e fissare priorità specifiche» dice Andrea Segrè, direttore scientifico di Waste Watcher, fondatore della campagna e del movimento Spreco Zero e di Last Minute Market impresa sociale.
L’Osservatorio Waste Watcher
«Quando si parla di spreco alimentare – precisa Segrè – la prima impresa ardua è la sua misurazione. Abbiamo creato l’Osservatorio Waste Watcher nel 2013 proprio per questa ragione. Il monitoraggio continuativo e le campagne di sensibilizzazione sono strumenti indispensabili per cambiare la cultura e adottare azioni innovative». Secondo gli ultimi dati sull’Italia qualcosa si muove, «tra l’onda lunga del lockdown che ha ridimensionato le abitudini con meno pasti consumati fuori casa, l’impennata dell’inflazione che impone una maggiore prudenza degli acquisti, insieme a una maggiore sensibilità su queste tematiche grazie alle campagne di prevenzione». Così l’86% degli italiani consuma tutto quello che ha preparato per prevenire lo spreco in casa. Non basta. Secondo l’ultima istantanea scattata dall’Osservatorio lo scorso gennaio nel nostro Paese si gettano ogni giorno 75 grammi di cibo pro capite, ovvero 524 a settimana e 27,2 chilogrammi all’anno. Il 12% in meno rispetto a un anno fa, ma non è sufficiente per invertire la rotta. Il cibo che finisce nei cassonetti vale ben 6,48 miliardi di euro, quello di filiera, dai campi alle tavole, sale a ben 9,3 miliardi. L’agricoltura è responsabile del 26%, l’industria del 28 e la distribuzione dell’8 per cento.
Alzando lo sguardo al di fuori dei confini nazionali si scopre che siamo in buona compagnia, come mostra il Cross Country Report 2022 contenuto nel libro di Segrè e Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos,”Lo spreco alimentare in Italia e nel mondo. Quanto, cosa e perché”. Un atlante che ha confrontato i dati di nove Paesi a livello mondiale. I più “spreconi” sono gli Usa, con 1.338 grammi a settimana. Agli antipodi ci sono Sudafrica e Giappone con i livelli più bassi (324 e 362). La frutta è l’alimento più sprecato del pianeta.
Le stime del Polimi
Di qui l’esigenza di trasformare il cibo gettato in risorsa all’insegna dell’economia circolare in tutta la filiera . «Secondo le nostre stime più di un terzo delle imprese del settore agroalimentare ha intrapreso almeno un’azione di questo tipo», spiega Paola Garrone, co-responsabile scientifico del Food Sustainability Lab e dell’Osservatorio Food sustainability del Politecnico di Milano. Con nuove nicchie di mercato e opportunità anche per il futuro: «Dal riutilizzo delle eccedenze nel rispetto dei criteri di sicurezza – sottolinea – al riciclo attraverso la rilavorazione e produzione di mangimi e concimi per animali, al recupero energetico, fino all’estrazione delle molecole dei resti alimentari per la produzione di cosmetici o di fertilizzanti per l’agricoltura». Tutte azioni «destinate a svilupparsi sempre più in futuro, ma che necessitano di adeguati supporti per poter passare da singole iniziative di laboratorio a operazioni su scala industriale».
A livello globale la strada maestra, conclude Segrè è «un Global Recovery food, una strategia su tre livelli: migliorare l’efficienza del sistema agroalimentare per ridurre l’impatto ambientale anche grazie alla diminuzione di perdite e sprechi, aumentare il recupero delle eccedenze ai fini caritativi e promuovere l’educazione alimentare e ambientale e l’adozione di diete salutari».