Giuseppe Bottero. Dopo averci pensato per anni, le grandi catene del food sono pronte alla sfida del mercato italiano. L’ultima a rompere il tabù è Starbucks, che «con umiltà e rispetto» ha annunciato l’apertura di una caffetteria a Milano – poi potrebbe toccare a Verona e Venezia – per l’inizio del 2017. Il colosso di Seattle, 21 mila negozi nel mondo, lavorerà in partnership con il gruppo Percassi, che gestirà la divisione italiana attraverso la licenza del marchio, e va arricchire la schiera di catene internazionali in rotta sul nostro Paese.
Si parte da Kentucky Fried Chicken, gigante del pollo fritto e icona a stelle e strisce, che sta continuando a crescere: ha aperto a Genova, Chieti, Torino e Roma e non ha nessuna intenzione di fermarsi. La scommessa vale 100 milioni di euro, e il piano prevede 15 nuove inaugurazioni all’anno. Visto che ogni ristorante impiega una sessantina di addetti, il contraccolpo sull’occupazione è notevole. Tra l’altro Kfc – a livello globale ha 19 mila locali e 750 mila dipendenti – appartiene al gruppo Yum! Brands, 13 miliardi di fatturato annui, che ha in portafoglio pure Taco Bell e Pizza Hut. E proprio quest’ultima, più volte, è stata data sul punto di sbarcare in Italia. Difficile, anche se i rivali di Domino’s Pizza – la seconda catena d’America – l’hanno già fatto. La prima sede è stata aperta lo scorso ottobre a Milano, e la chiave per entrare nel Paese è il franchising. La stessa soluzione su cui punta 100 Montaditos, la paninoteca spagnola nata nel 2000 che ha oltre 350 ristoranti in mezza Europa e una ventina in Italia. In scia pure Amsterdam Chips, che però, a parte il nome, di straniero non ha nulla.
Il mercato italiano
Scalare il mercato tricolore del caffè, in ogni caso, resta un’impresa per chiunque, e gli addetti di McDonald’s McCafe lo sanno benissimo. Innanzitutto perché è affollatissimo e, dicono dal Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi), «non conosce cali e non teme incursioni dall’esterno». Ogni bar, ogni giorno, serve 175 tazzine per un incasso di 184 euro, con un prezzo medio di 0,96 euro a tazzina. Difficile competere. «Il vero problema di Starbucks è il costo: siamo abituati a bere l’espresso a un euro, mentre nella catena statunitense i prezzi sono più alti», dice Luca Pellegrini, ordinario di Marketing presso l’università Iulm, che evidenzia un altro nodo: «Se un format ispirato da un bar milanese arriva dopo così tanto tempo in Italia è il segno che qualche difficoltà c’è».
Il nodo del pubblico
Se Starbucks avrà successo, dice Gianluca Diegoli, consulente, docenze a Ca’ Foscari e all’Università di San Marino, il gruppo Usa sarà però riuscito a centrare un doppio obiettivo, dimostrando di «essere in grado di vendere il ghiaccio agli eschimesi». E le premesse, dice, sono buone: «La qualità del caffè bevuto in Italia è molto sopravvalutata, così come la capacità di discernere degli italiani». Non solo: «Si va da Starbucks per l’esperienza, che spesso è il punto debole di molti coffee bar italiani». Per l’esperienza, e pure per una sorta di mitologia legata all’immaginario hollywoodiano. Il bicchierone con il logo verde e bianco è una presenza fissa ne «Il diavolo veste Prada», mentre è in un locale Sb che si innamorano la libraia Kathleen Kelly, Meg Ryan, di «C’è posta per te» e Joe Fox, interpretato da Tom Hanks. Non rinunciano al Frappuccino nemmeno agenti dell’Fbi come Sandra Bullock, in «Miss Detective», e duri come Brad Pitt e Edward Norton in «Fight Club».
Ma in Italia, chi saranno i frequentatori? «Soprattutto i giovani professionisti urbani, che hanno esperienze internazionali. Sul resto della popolazione ho qualche dubbio», ragiona Pellegrini. La concorrenza, spiega, è agguerritissima, soprattutto per quanto riguarda la pausa pranzo. «Certo – prosegue – ai nostri baretti manca la capacità di darsi uno stile, molti caffè, anche belli, hanno arredamenti d’altri tempi». L’ad di Starbucks lo sa benissimo. Negli ultimi anni Howard Schutlz è passato in Italia almeno una volta l’anno: «Il sogno della compagnia è sempre stato quello di chiudere il cerchio aprendo in Italia, ma non eravamo ancora pronti». Ora, dice, «abbiamo intuito» che il momento è arrivato.
La Stampa – 1 marzo 2016