Per i produttori di latte italiani è una opportunità, per l’industria dolciaria un problema. Il burro, ingrediente principale di gran parte di biscotti e merendine, scarseggia. E il prezzo di quel che si trova sui mercati europei aumenta in maniera costante.
Secondo le rilevazioni di Coldiretti, le quotazioni del burro alla produzione in Italia a maggio sono quasi raddoppiate, con un aumento di circa il 90 per cento rispetto allo stesso periodo del 2016 alla Borsa di Lodi, dove anche il latte spot, cioè quello sfuso in cisterna, ha superato i 41 centesimi al litro, contro i 37 centesimi di appena tre mesi fa. Anche a livello internazionale, sempre secondo Coldiretti, il consumo di burro è in aumento, negli Stati Uniti la crescita è del 7 per cento, del 5 per cento in Argentina e del 4 per cento sia in Asia che in Australia nel primo trimestre dell’anno, rispetto allo stesso periodo del 2016.
A determinare aumento dei prezzi e diminuzione delle forniture alle industrie dolciarie ci sono soprattutto due fattori: l’abbandono dell’uso di olio di palma e l’entrata in vigore (lo scorso 19 aprile) della legge che obbliga a indicare in etichetta l’origine per tutti i prodotti lattiero caseari. I consumatori italiani sono sempre più attenti, una rilevazione Nielsen dello scorso aprile li ha classificati come i più informati e accorti nel leggere le etichette a livello europeo, così le loro scelte consapevoli stanno orientando il mercato.
Alcuni grandi produttori confermano che non c’è più burro in stock e che se ne produce meno (dell’1 per cento la flessione in questi primi mesi del 2017) perché chi vende il latte trova più remunerativo proporlo alle industrie casearie. A monte, la diminuzione degli allevamenti per il latte in Italia, con il numero di stalle italiane dimezzato negli ultimi dieci anni: ci sono ora 30mila allevamenti contro i 60mila attivi nel 2005. Ma la crisi del burro può diventare una opportunità per i prodotti di qualità italiani. «Il prezzo del latte – osserva Carlo Petrini, fondatore di Slow Food – finalmente si sta alzando, dopo anni in cui gli allevatori non riuscivano a guadagnare neanche il necessario a nutrire gli animali. E si badi, parliamo di pochi centesimi, che non inciderebbero sulle tasche dei consumatori, ma che farebbero invece un’enorme differenza per gli allevatori». «Veniamo da anni in cui si sono chiuse le stalle – continua Petrini – spero che le industrie si rendano conto che se non avessero preso per il collo gli allevatori ora il latte per produrre più burro ci sarebbe».
La tracciabilità del latte contribuisce dunque a valorizzare le produzioni italiane: «I consumatori leggono le etichette, nessuno vuole più l’olio di palma e vuole sapere da dove arriva ogni ingrediente – conclude Petrini – deve essere sempre più radicata l’idea che per i prodotti di qualità si devono stabilire prezzi giusti. Per fortuna anche tra le grandi industrie ci sono politiche diverse, e non sono poche quelle che scelgono con orgoglio il latte italiano e lo dichiarano. Ora c’è da sperare che questa inversione serva a fare riaprire le stalle». In ballo non c’è soltanto l’orgoglio dei prodotti italiani, perché la filiera del latte conta 120mila posti di lavoro e un fatturato di 28 miliardi.
Repubblica – 1 giugno 2017