La morte di Matteo Miotto, il ventiquattrenne caporal maggiore di Thiene ucciso il giorno di San Silvestro in Afghanistan, colpisce al cuore il Veneto che si prepara a festeggiare il nuovo anno. C’è un senso di incredulità nel sentire il racconto della sua fine. Miotto, sembra, fosse in servizio su una garitta, quando il proiettile di un cecchino lo ha centrato a un fianco, una parte del corpo lasciata scoperta dal giubbetto. Il padre di quest’alpino sfortunato chiede ora chiarezza su quello che è accaduto, mentre è atteso per domani mattina il rientro della salma. Era così giovane, Matteo, ma sapeva, con grande e prematura saggezza, comprendere molte cose. Per questo abbiamo pensato di pubblicare qui una sua lettera, inviata lo scorso novembre dalla valle del Gulistan al Gazzettino.
Forse questo ricordo potrà apparire inusuale sul sito di un sindacato. E infatti per certi versi lo è. Ma è morto uno dei nostri ragazzi, che scriveva anche in veneto, come noi. Uno dei tanti ragazzi di tutta Italia che vanno a rischiare la pelle. Con troppi punti di domanda per vederci dentro un vero perché.
Il caporale di Thiene: «Nonno ti sei sbagliato, la guerra l’ho vista anch’io»
Voglio ringraziare a nome mio, ma soprattutto a nome di tutti noi militari in missione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pensiero solo in tristi occasioni come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere.
Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo…
Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi.
Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce… Nel mezzo blindo, all’interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili insurgents avvistati, su possibili zone per imboscate, nient’altro nell’aria… Consapevoli che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince.
Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l’ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio…
Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame…
Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorella… Dei loro padri e delle loro madri neanche l’ombra, il villaggio, il nostro villaggio, è un via vai di bambini che hanno tutta l’aria di non essere li per giocare…
Non sono li a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, sotto le sterpaglie c’è un asinello, stracarico, porta con sé il raccolto, stanno lavorando… e i fratelli maggiori , si intenda non più che quattordicenni, con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di capre e pecore ne sa qualcosa…
Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci guarda, dalla barba gli daresti sessanta settanta anni poi scopri che ne ha massimo trenta… Delle donne neanche l’ombra, quelle poche che tardano a rientrare al nostro arrivo al villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno quaranta gradi all’ombra…
Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi… Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati…
Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: “brutta cosa bocia, beato ti che non te la vedarè mai…” Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi “visto, nonno, che te te si sbaià…”
Caporal Maggiore Matteo Miotto
Valle del Gulistan, novembre 2010
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