La Stampa. Non commenta le decisioni del governo, né le posizioni dei virologi, ma chiarisce che «siamo ancora in pandemia, in una fase di crescita molto significativa dei contagi di cui non si prevede il picco e l’endemizzazione del virus è uno scenario possibile, ma non attuale».
Silvio Brusaferro, professore ordinario di Igiene all’Università di Udine, presidente dell’Istituto superiore di sanità e membro del Cts, ristabilisce in questa intervista il primato della scienza per cui «invece di discutere su cosa succederà bisogna guardare i dati e prepararsi a eventuali novità con coperture vaccinali, farmaci e monitoraggio».
In che situazione siamo?
«Siamo ancora in pandemia, in una nuova fase caratterizzata dalla variante Omicron arrivata all’80 per cento dei contagi e da quasi il 90 per cento della popolazione vaccinata. Questa combinazione, nonostante la crescita dell’infezione molto significativa e l’impatto notevole sul servizio sanitario, rende il quadro meno grave di quanto sarebbe stato senza vaccini e misure in atto».
Il picco quando arriverà?
«Difficile prevederlo, questa settimana il contagio resta molto elevato con 1988 casi ogni 100mila abitanti. Un segnale positivo si nota dal fatto che dal 24 al 30 dicembre l’incidenza era di 783 ogni 100mila abitanti, dal 31 al 6 gennaio è raddoppiata a 1669 e questa settimana si è fermata a 1988. Un rallentamento della crescita su cui essere cauti e da confermare, perché molte Regioni hanno segnalato difficoltà a riportare i dati».
La speranza è che a un certo punto vaccinati e guariti creino un muro contro Omicron?
«Certo, se il numero dei suscettibili al virus si riduce, cala l’indice di contagio Rt. Il problema è che Omicron può infettare anche una parte dei vaccinati, seppur con minore probabilità».
Omicron convivrà con Delta?
«Di questo passo la sostituirà».
Questo porterà all’endemizzazione del virus?
«È uno scenario possibile, ma la realtà attuale è di crescita del contagio. Bisogna essere concreti e prepararsi a eventuali novità con coperture vaccinali, farmaci e monitoraggio. Dopo Omicron non è diminuito il rischio di nuove varianti. Per convivere più serenamente col virus dobbiamo anche occuparci del resto del mondo, supportando i Paesi più fragili nella produzione e nella logistica dei vaccini».
Con il dilagare del contagio si va verso l’immunità di gregge?
«In Italia, a differenza che nel Regno Unito, sono sempre state mantenute tante misure di sicurezza per limitare il contagio. Omicron è molto diffusiva e in questa fase può contribuire a ridurre i suscettibili, il che unito ai vaccini potrebbe nel tempo diminuire la circolazione del virus. La nuova variante però contribuisce, seppur in proporzione minore, ai ricoveri».
I vaccini possono apparire meno indispensabili?
«No, perché grazie ad essi il servizio sanitario si sovraccarica meno. E non dimentichiamo che Omicron può reinfettare anche i guariti di altre varianti».
La vaccinazione dei bambini resta fondamentale?
«Sì, perché i vaccini si confermano sicuri e i ricoveri dei bambini, ancorché in misura contenuta, esistono. Oltre il 20 per cento degli under 12 ha ricevuto almeno una dose e spero aumenti rapidamente».
Dopo tre dosi non contagiarsi ha ancora un valore?
«Certo, la protezione non è mai totale e si evita di trasmettere il virus soprattutto ai più fragili».
Quante dosi saranno necessarie?
«La terza dose intanto protegge molto bene dalla malattia grave, se ne sta studiando la durata ed è presto per parlare della quarta. Le case farmaceutiche lavorano ad aggiornamenti dei vaccini, ma andranno valutati i dati».
Si è capito quanto duri l’immunità cellulare?
«Non ancora, ma nuovi studi dimostrano che protegga verso la malattia grave anche oltre sei mesi».
Perché si vuole cambiare il modo di fare i conti della pandemia?
«Si possono variare degli indicatori, ma la classificazione dei casi va mantenuta perché ci aiuta a capire cosa succede e quali misure prendere. Soprattutto in una fase di pandemia acuta è bene continuare come ora, anche per confrontarci con gli altri Paesi».
Cosa ne pensa della proposta delle Regioni di non fare più il tampone e ridurre l’isolamento ai positivi con tre dosi?
«È un tema emergente, ma anche con tre dosi si può contrarre l’infezione, seppur con una bassa probabilità, e si può contagiare».
Quanto sono in crisi gli ospedali?
«Le terapie intensive sono piene al 17 per cento di pazienti Covid e i reparti ordinari al 27. Dati in crescita, che indicano la necessità di riorganizzare gli ospedali dilazionando altre prestazioni».
Le zone colorate hanno ancora senso dopo le nuove misure?
«Sì, perché si intensificano in base alla saturazione degli ospedali costituendo un’allerta per un territorio».
Quali sono i pregi e i difetti dimostrati dalla sanità pubblica nella pandemia?
«Va dato atto al servizio sanitario di una straordinaria capacità di risposta grazie al suo approccio universalistico. Bisogna ringraziare i nostri padri che lo hanno fondato e chi ci lavora per la sua professionalità. Si è vista flessibilità nella riorganizzazione e nel monitoraggio, come si fa all’Iss grazie anche al lavoro incessante delle Regioni. E ci sono state pubblicazioni scientifiche di livello internazionale. Ora però bisogna continuare a investire, come si farà col Pnrr per digitalizzare e condividere i dati rapidamente. Occorre poi ridurre le differenze regionali, rafforzare la prevenzione e potenziare le reti assistenziali territoriali e ospedaliere. È importante ricordare che il servizio sanitario è di tutti i cittadini e che solo collaborando si garantisce la nostra salute».
Da membro del Cts come considera i dibattiti tra virologi?
«Li guardo con occhio scientifico e trovo che uno degli aspetti più da studiare della pandemia sia come affrontare l’infodemia».
Come va la sua esperienza all’Iss in un momento del genere?
«Non me lo aspettavo certo, ma sono un professore di sanità pubblica e lo vivo come un servizio alla comunità».
Poi cosa farà?
«Prima passiamo il picco e poi vedremo. Il mio sogno, come quello di molti, è poter dire quanto prima che sia finita». —