È scoppiata la tregua tra Londra e Bruxelles, ma in Gran Bretagna i problemi legati a Brexit continuano. L’accordo di Windsor annunciato la settimana scorsa dal premier britannico Rishi Sunak e dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen sembra segnalare l’avvio di rapporti bilaterali meno conflittuali e improntati a un sano pragmatismo.
L’ottimismo è lecito ma la cautela è d’obbligo, dato che l’accordo, pur accolto con favore da tutti i partiti, deve essere ancora approvato dal Parlamento britannico. Il Dup, il partito unionista protestante che finora ha bloccato qualsiasi tentativo di sbloccare l’impasse sull’Irlanda del Nord, sta studiando l’intesa e non si pronuncerà fino ad aprile.
Sunak conta sul fatto che l’opinione pubblica è dalla sua parte. I cittadini britannici sono stanchi di Brexit e i deputati ne sono consapevoli.
Quasi sette anni dopo il referendum e oltre tre anni dopo il vanaglorioso annuncio di Boris Johnson di avere «concluso Brexit», nuove difficoltà dovute all’uscita dalla Ue continuano a emergere. E sondaggio dopo sondaggio si conferma che, con il senno di poi, gli inglesi oggi voterebbero diversamente. Non potendo tornare indietro, la loro preferenza è se non altro per un allentamento delle tensioni con Bruxelles che risolva i problemi pratici.
L’ultima seccatura per i consumatori britannici è stata la sparizione di pomodori, insalata, peperoni e altre verdure fresche dagli scaffali dei negozi. Molti supermercati hanno iniziato a razionare le scarse scorte. Le autorità hanno dichiarato che la colpa era del freddo intenso in Spagna e Marocco che ha creato problemi di approvvigionamento. I media hanno pubblicato o trasmesso immagini di reparti di verdure strapieni nei supermercati europei.
I consumatori hanno tratto le loro conclusioni: secondo un sondaggio condotto da Savanta il 57% degli interpellati ritiene che la colpa della carenza di frutta e verdura sia di Brexit e solo uno su tre accetta la giustificazione del Governo. I problemi dureranno diverse settimane e hanno portato a un’ulteriore impennata dei costi, in aggiunta all’aumento del 17% dei prezzi dei generi alimentari.
L’inflazione nel Regno Unito è a due cifre, più alta che nell’Eurozona e l’economia britannica è il fanalino di coda del G7, l’unica a non essere tornata alle dimensioni pre-pandemia. Le previsioni ufficiali del Governo sono di una contrazione dell’1,4% quest’anno, quelle della Banca d’Inghilterra di un calo del Pil dello 0,5%. Anche se la lunga recessione prevista dalla BoE sarà evitata, la crescita comunque segna il passo.
L’impennata del costo della vita è la preoccupazione principale dei cittadini e ha aggravato le tensioni sociali, con un’ondata di scioperi in tutti i settori, dalle ferrovie alle Università agli ospedali. Ora il Governo ha abbandonato la linea dura adottata per mesi e sembra disposto a trattare con i sindacati del settore pubblico che chiedono condizioni di lavoro migliori e aumenti di stipendio in linea con l’inflazione.
Nell’attesa di un compromesso le proteste però continuano: la settimana prossima, a coincidere con la presentazione della Finanziaria, sono previsti scioperi dei medici, dei ferrovieri, degli addetti alla metropolitana londinese, degli insegnanti, dei docenti universitari e dei funzionari pubblici.
I disagi ci sono per chi resta e per chi parte. A breve i cittadini britannici che partiranno per le vacanze di Pasqua toccheranno con mano le conseguenze pratiche di Brexit, con code e controlli dei passaporti alle frontiere europee.
L’ideologia che aveva fatto vincere “Leave” nel 2016 è stata soppiantata dal realismo. Non sorprende quindi che l’opinione pubblica sia contro Brexit. L’ultimo sondaggio YouGov rivela che il 53% ritiene che lasciare la Ue sia stato un errore, mentre solo il 32% pensa ancora sia stata la scelta giusta. Solo un interpellato su dieci pensa che Brexit abbia migliorato le cose. Secondo YouGov il 68% dei cittadini ritiene che il Governo abbia gestito male l’uscita dalla Ue, un problema per i conservatori al potere da 13 anni che nel 2024 dovranno affrontare una campagna elettorale tutta in salita.
Le imprese sono altrettanto scettiche sui benefici di Brexit perché non si sono ancora materializzati. Chi esporta ha avuto solo problemi, oneri burocratici e costi aggiuntivi, mentre chi opera in patria non riesce a trovare personale. Dalle fabbriche di auto ai ristoranti, dagli ospedali alle aziende farmaceutiche, tutti lamentano le difficoltà a trovare lavoratori qualificati e non.
Make UK, l’associazione dei produttori, ha esortato il Governo a ristabilire i rapporti con la Ue per facilitare gli scambi e tutelare le imprese britanniche. Metà dei suoi membri hanno difficoltà a reperire componenti e materiali in Europa e ritengono che la crisi economica e il caos politico dell’ultimo anno abbiano danneggiato l’immagine del Regno Unito come destinazione per gli investimenti stranieri agli occhi del mondo e non solo della Ue.
Non è più possibile continuare con «la malagestione politica della nostra economia, il danno fatto alla reputazione della Gran Bretagna come partner affidabile e il disprezzo per le regole», ha affermato ieri il chief executive Stephen Phipson al congresso annuale di Make UK.
Nella Finanziaria del 15 marzo il Cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt dovrebbe annunciare incentivi per migliorare la produttività e promuovere gli investimenti, ma procederà con l’aumento delle imposte societarie dal 19% al 25% a partire da aprile.
La previsione è che, dato lo stato delle finanze pubbliche, il Budget sarà all’insegna del rigore: nessuna riduzione delle tasse e nessun aumento della spesa pubblica. Nessuna caramella per addolcire l’impatto di Brexit.