Marco Bresolin. L’Italia sarà uno dei Paesi che pagherà il prezzo più caro per l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Tutto è pronto per l’iter ufficiale: domani Londra attiverà l’Articolo 50 e già si fanno i conti. Solo per il 2019, la contribuzione «extra» del nostro governo al bilancio Ue sarà di circa 1,3 miliardi di euro.
A oggi è previsto che Roma sborsi 17 miliardi e 693 milioni di euro, ma l’Europa a 27 comporterà costi maggiori e dunque il contributo richiesto all’Italia sforerà quota 19 miliardi (+7,4%). A questo, poi, andranno aggiunte tutte le ricadute collaterali della Brexit, per esempio sulle imprese che esportano Oltremanica (le stime prevedono un calo tra il 3 e il 7%). Soltanto i governi di Germania (4,2) e Francia (1,78 miliardi) pagheranno di più in termini assoluti per tappare il buco lasciato dai britannici. In percentuale, invece, il peso maggiore cadrà su Olanda (+13,49%) e Svezia (+14,4%). I dati, con i conti Paese per Paese, sono contenuti in una tabella allegata a un’informativa riservata del governo spagnolo visionata da La Stampa.
Madrid stima che il gap da colmare per il 2019 sia di circa 12,4 miliardi, somma che corrisponde al valore della «contribuzione netta del Regno Unito». La cifra deriva dai 20,5 miliardi di euro che i britannici avrebbero dovuto versare, meno gli 8,1 che avrebbero dovuto ricevere in fondi europei. Il buco farebbe così scendere il valore totale del bilancio da 152,57 a 144,44 miliardi. È il caso di usare il condizionale perché gli Stati potrebbero anche decidere di rispondere diversamente, riducendo ulteriormente il valore del bilancio: in quel caso il peso della Brexit non si farebbe sentire sulle uscite, ma sulle entrate. Con un bilancio più snello, diminuirebbe il valore dei fondi europei. E l’Italia sarebbe uno dei Paesi più penalizzati.
Molto dipenderà dai negoziati tra Londra e Bruxelles. Che partono già divise su un punto fondamentale. La task force creata per la Brexit, ribattezzata TF50 e guidata dall’ex commissario Michel Barnier, sta lavorando da mesi a come impostare lo schema di gioco e ha deciso di dividere il lavoro in due fasi. Prima si dovranno definire tutti i dettagli dell’uscita, solo in un secondo momento le parti cercheranno un’intesa sulle relazioni future. Prima il divorzio, poi gli alimenti: la parola d’ordine è «sequenzialità». Ma i britannici non ci stanno e parlano invece di «parallelismo»: si deve trattare contemporaneamente sui due fronti. «Keep calm and negotiate» c’è scritto sulle cover rosse degli smartphone di alcuni esperti che fanno parte della task force Ue. Ma la strada sembra già tutta in salita.
Eppure il team Barnier punta a chiudere la prima fase dei negoziati «entro il prossimo autunno o comunque entro la fine del 2017», rivela una fonte, in tempo per ottenere l’approvazione dal Consiglio europeo di dicembre e riservare le trattative per la futura partnership al 2018. Obiettivo ambizioso, visto che in questa fase i dettagli da definire sono tanti. Tre i capitoli che appaiono negli appunti del Team Barnier: diritti dei cittadini Ue che vivono nel Regno Unito; unione doganale e in particolare la gestione della frontiera con l’Irlanda; impegni economici di Londra. Quest’ultimo sarà uno dei punti più delicati: a Bruxelles stimano il conto in circa 58 miliardi di euro, tra impegni di bilancio e pensioni dei funzionari. Ma Downing Street non vuol sentirne parlare: sarà un braccio di ferro.
Venerdì ci sarà la prima riunione degli ambasciatori Ue, che si troveranno sul tavolo le linee-guida preparate da Donald Tusk. Un documento di dieci pagine diviso in quattro capitoli. Il terzo riguarda proprio le relazioni future, che vanno dall’accordo commerciale alle collaborazioni in campo della sicurezza. Il documento sarà approvato definitivamente al Consiglio europeo a 27 del 29 aprile. Poi la Commissione otterrà il mandato per negoziare: per arrivare all’uscita definitiva tra due anni esatti, prima delle elezioni europee, le trattative dovranno concludersi entro l’autunno del 2018, in modo da lasciare qualche mese per la ratifica dei Parlamenti. «Una corsa a ostacoli su cui nessuno è pronto a scommettere» ammette sconsolata una fonte diplomatica di lungo corso che ben conosce la difficoltà dei tavoli negoziali.
La Stampa – 28 marzo 2017