Claudia Luise. Dalla Lombardia alla Sicilia: nonostante differenze anche sostanziali nel mondo del lavoro e nella rete familiare, per le donne ritornare al lavoro dopo la nascita di un figlio sta diventando sempre più problematico in tutte le regioni d’Italia, anche in quelle dove solitamente l’occupazione femminile è maggiore rispetto alla media nazionale. Alla base restano i problemi da affrontare quando si prova a conciliare carriera e cura della famiglia nei primi anni di vita di un bambino tra costi alti per i nidi, stipendi bassi e nonni, spesso ancora in servizio, che non possono badare ai nipoti.
In Italia le dimissioni volontarie per genitori con figli fino a 3 anni d’età sono state 37.738. Secondo i dati forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro le donne che si sono licenziate sono state 29.879. Tra le mamme, appena 5261 sono i passaggi ad altra azienda, mentre tutte le altre (24.618) hanno specificato motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino (costi elevati e mancanza di nidi) o alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. Per gli uomini la situazione è capovolta: su 7859 papà che hanno lasciato il lavoro, 5609 sono passaggi ad altra azienda e solo gli altri hanno deciso di farlo per difficoltà familiari. I dati si riferiscono al 2016, gli ultimi a disposizione di ministero del Lavoro e Ispettorato.
La Lombardia è in testa con un numero altissimo di dimissioni convalidate, ben 8850. Tra queste 3757 sono dovute al passaggio ad altra azienda, ma tutte le altre (5093) sono legate a motivi familiari. Tra le donne, che sono state 6767, quasi la metà (3105) si sono licenziate per mancato accoglimento al nido, assenza di parenti di supporto e elevata incidenza dei costi di assistenza del pargolo.
Tante, ancora troppe se si considera che la Lombardia garantisce una delle reti di nidi e supporto tra le più sviluppate in Italia. Non va meglio in Veneto, seconda regione per numero di dimissioni, 5008 (3658 mamme e 1350 papà). In questo caso, a differenza delle altre zone d’Italia, sono 770 i genitori che sottolineano come nella scelta abbia inciso la mancata concessione del part time e la modifica dei turni. Terze, in questa classifica infelice, sono il Lazio (3616) e l’Emilia Romagna (3609), quasi a pari merito nonostante le enormi differenze sociali e lavorative dei due territori. In questi casi hanno scelto di perdere il lavoro perché non riuscivano a conciliarlo con la famiglia rispettivamente 1519 e 1243 donne.
Considerando i dati aggregati, il numero più alto di dimissioni è stato registrato al Nord, 23.117, mentre al Centro sono state 8562 e al Sud 6059. In generale i cambi di azienda non incidono così tanto (al Nord sono stati circa 8000). Ma al Sud sono davvero pochissimi, appena 350. Fanalino di coda è la Calabria. Nonostante il numero di abitanti, le dimissioni sono state appena 517. Si fa presto a considerare che in questo caso incide tanto la disoccupazione femminile.
Analizzando la qualifica delle donne che lasciano il lavoro emerge chiaramente come meno guadagni più sei sola e «costretta» a dimetterti. Ecco che tra operaie e impiegate si arriva a 28.102 convalide, mentre quelle di dirigenti e quadri sono state 680. Con uno stipendio che a stento raggiunge i mille euro i conti sono presto fatti: ne spendi almeno 500 tra tata e nido e dai 500 che avanzano bisogna ancora sottrarre costi base come pannolini e prodotti per l’igiene. Sono in molte a pensare che non valga la pena stare almeno 7 ore lontano da casa per guadagnare così poco e non dedicarsi al figlio.
Ma questo è un circolo vizioso perché dimettendoti perdi anche alcuni benefici come il Bonus baby sitter: risollevarsi e cercare un altro impiego diventa così ancora più difficile.
La Stampa – 8 gennaio 2018