di Francesca Sironi. A Nord come a Sud. Accanto all’amianto e agli scarti chimici la popolazione continua ad ammalarsi e morire. Un rapporto del ministero dell’Ambiente fotografa la débacle. A Balangero, in provincia di Torino, l’amianto è di casa. Per ottant’anni i tremila abitanti del paese hanno convissuto con la più grande cava di pietra verde d’Europa, prima di scoprire che oltre al lavoro quei sassi portavano tumori ai polmoni e morte.
Fermata l’attività della miniera nel 1990, nel 1993 arrivò il primo piano per la bonifica di quei materiali un tempo utilizzati diventati ormai rifiuti pericolosi. E oggi, a ventun anni di distanza, di quei 314 ettari di polveri velenose solo 3,3 sono stati puliti: l’un per cento. È uno dei tanti, macroscopici ritardi fotografati in un rapporto del ministero dell’Ambiente sullo stato delle bonifiche nei luoghi più inquinati del paese, aggiornato al 31 dicembre del 2013.
Un dossier di 58 pagine che fotografa dall’alto il dormire indisturbato dei veleni. Mentre nelle case accanto ad ex industrie chimiche, raffinerie, acciaierie e discariche, la gente continua ad ammalarsi e morire.
Il rapporto, ora nelle mani del neo-ministro dell’Ambiente, il commercialista del’Udc Gian Luca Galletti, non mostra null’altro che numeri. Sufficienti, da soli, a raccontare una burocrazia micidiale, dall’attività incessante quanto scarsa nei risultati. Dal 2000 ad oggi, ovvero nei 14 anni in cui 57 pezzi d’Italia, da Taranto a Sesto San Giovanni, sono stati considerati dei “siti di interesse nazionale”, amministratori locali e commissari si sono riuniti 1531 volte, 821 per capire cosa fare dei veleni sotto terra o sott’acqua, 721 per prendere delle decisioni.
Questo continuo riunirsi ha prodotto 23.833 documenti inviati al ministero per avere consigli o approvazione. Fra i fogli ci sono i piani di caratterizzazione, ovvero quell’attività preventiva che serve a capire quanto è esteso l’inquinamento e da cosa è composto, ci sono i progetti per iniziare la “messa in sicurezza”, ovvero gli interventi che le aziende stesse – se ci sono ancora – o i comuni possono mettere in atto per evitare che i virus si estendano ulteriormente, e infine ci sono i concreti propositi per la bonifica, che dovrebbe permettere a quelle terre una nuova vita.
Il problema è che a questo ultimo gradino, il primo che consiste veramente nel sbarazzarsi delle scorie, trovando discariche adatte o processi capaci di ripulire i rifiuti sul posto, sono arrivati in pochi. Anzi, in pochissimi. A Brindisi la zona avvelenata sarebbe estesa 5851 ettari: la luce verde è arrivata solo per 547. A Piombino su 931 ettari solo 68 sono pronti per essere puliti. A Taranto 4383 ettari, fra mare e città, sono a rischio. Solo su 633 ci sono controlli fatti. E anche i successi possono nascondere altri segreti.
Sulle macerie dell’Acna, l’impresa di coloranti che ha lasciato a Cengio, sul confine fra Piemonte e Valle d’Aosta, una pesante eredità di diossine, metalli e rifiuti tossici, la bonifica sarebbe completa: la prima in Italia, con tanto di festa e di comunicati orgogliosi da parte dell’allora ministro per l’Ambiente Stefania Prestigiacomo. Ma secondo il Wwf non è possibile parlare di vittoria. Perché benché assicurati dentro bare resistenti i veleni sono ancora tutti lì. Tanto che la possibile vendita dell’area a delle imprese interessate è in sospeso, in attesa che dal ministero indichino chiaramente cosa è rimasto da fare: sotto il tappeto sono nascoste altre scorie.
Altre vittorie potrebbero non rivelarsi tali. Per i 250 ettari dell’Ex Falck di Sesto San Giovanni, a Milano, il piano di bonifica è pronto. Tanto che nel rapporto ministeriale l’ex acciaieria è tutta verde (il colore dell’ultimo step, quello del successo): i soldi ci sono, il piano pure, e la gara per ripulire il passato industriale di Sesto è stata affidata. A chi? A una società controllata dalla famiglia di Giuseppe Grossi, mancato nel 2011, lo stesso Grossi indagato per i costi gonfiati della maxi-pulizia del quartiere milanese di Santa Giulia. A Napoli la presunta bonifica di 226 dei 945 ettari inquinati di Bagnoli ha portato la procura a indagare 21 persone, tra dirigenti, imprenditori e responsabili istituzionali, perché la rimozione delle scorie avrebbe creato piuttosto un ulteriore danno ambientale. Ma nel dossier tutta quella zona, pure, è segnata dal verde del successo.
L’elenco è lungo: riguarda 160mila ettari di terra e 130mila di mare, riempiti di veleni mortali. E quello del ministero non è nemmeno un elenco completo, perché con un decreto del gennaio 2013 il governo di Roma si è sbarazzato di 18 mega-mostri ecologici su 57: dalle mani di Stato sono passati al controllo delle Regioni, che si dovranno arrangiare da sole a ripulire la melma tossica di Cerro al Lambro, a Sud di Milano ad esempio o i detriti della Maddalena, in Sardegna, sulla cui gestione – organizzata dall’allora capo della protezione civile Guido Bertolaso – sta indagando la magistratura.
L’Espresso – 25 aprile 2014