«C’è solo una ragione per non adeguare l’età pensionabile alla speranza di vita: la prossima campagna elettorale». In questa intervista Tito Boeri, presidente dell’Inps, critica la miopia della politica nell’ultima vicenda pensionistica. Parla del rischio di una «controriforma » e dei possibili effetti sullo spread per colpa della perdita di credibilità. E dice che i sindacati non «difendono i salari ma ormai si battono solo per far aumentare la spesa pensionistica».
Il Pd si è schierato contro l’aumento dell’età pensionabile legato all’innalzamento della speranza di vita. Renzi ha detto che non costa un euro prendersi sei mesi per decidere cosa fare. Perché lei è contrario?
«Ci vorrà una legge, quindi una riforma pensionistica, anche solo per spostare l’adeguamento al 2018. Anche ammesso e non concesso che dopo le elezioni si facesse l’adeguamento a cinque mesi, questa controriforma delle pensioni ci esporrebbe a grandi rischi in un momento di forti tensioni internazionali e di irrigidimento della politica monetaria. Ciò potrebbe provocare un forte aggravio dei costi del servizio del debito pubblico e un conseguente aumento dello spread. Ricordo che un punto in più di tasso di interesse sui nostri titoli di Stato costa circa 2 miliardi di euro all’anno, vale a dire cinque volte le risorse destinate alla decontribuzione per l’anno prossimo in una manovra che dovrebbe finalmente guardare ai giovani. Ci sarebbero, inoltre, effetti negativi sulla pianificazione delle uscite anticipate dal lavoro perché si creerebbe incertezza. Chi vuole usufruire dell’Ape volontaria deve, infatti, sapere quando può lasciare la sua attività. E le imprese devono sapere quando potranno andare in pensione i loro lavoratori ».
Sarebbero i giovani a pagare il mancato adeguamento?
«Sì, sono i contributi degli attuali lavoratori che pagano le pensioni degli attuali pensionati. Più anni di vita senza adeguamento vogliono dire più pensioni da finanziare con le proprie tasche. È una questione di equilibrio del sistema previdenziale e di equità intergenerazionale. Il Parlamento ha votato le riforme degli anni scorsi decidendo che il nostro sistema previdenziale deve tornare su un sentiero di equilibrio. È stato il biglietto da visita con cui ci siamo presentati in Europa per ottenere più flessibilità nei conti pubblici. L’automatismo ci mette al riparo dalla miopia dei politici che soprattutto in prossimità delle elezioni sono tentati da interferire sull’equilibrio del sistema. Tra l’altro, ho l’impressione che i politici prendano spesso posizioni d’istinto, senza guardare i numeri. Lo sanno che i beneficiari del rinvio sarebbero circa 175 mila persone, mentre ci sono platee più vaste (a partire dai bloccati dagli adeguamenti del 2013 e 2016, e dalle 25 mila donne che hanno accettato forti riduzioni delle pensioni, con l’opzione donna, pensando che ci sarebbe poi stato l’adeguamento) che non saranno affatto contente di questo regalo concesso alle classi che vanno da giugno 1952 a luglio 1954?».
Quanto costa il mancato adeguamento?
«Se non si facesse l’adeguamento a 67 anni adesso e lo si facesse nel 2021, come prevede la clausola di salvaguardia della legge Fornero, senza più aggiornamenti successivi, da qui al 2040 la somma degli aggravi di costo arriverebbe a 140 miliardi di euro. Se si vogliono adeguamenti più graduali, bisogna farli ogni anno anziché a quattro o cinque di distanza dall’ultimo come vorrebbe chi vuole rinviare».
Resta il fatto che con l’età pensionabile a 67 anni l’Italia raggiunge la vetta in Europa.
«Oggi la vita lavorativa media in Italia è di 31 anni, contro i 37 della media europea. L’età effettiva di pensionamento è da noi di poco superiore ai 62 anni. Quindi di fatto stiamo innalzando l’età a 62 anni e 5 mesi. Se non lo si fa, saranno i giovani a dover andare in pensione a 75 anni, o ancora più in là. È sempre avvenuto così. Si rimandava nel tempo ogni aggiustamento finché poi, con le spalle al muro, dovevamo procedere con interventi draconiani ai danni degli ultimi arrivati. È la storia delle riforme Amato e Fornero».
Ma l’età non dovrebbe essere diversa tra chi lavora in un ufficio e chi in un cantiere?
«Ridurre l’età pensionabile per tutti mantiene le asimmetrie. Per favorire chi ha minori probabilità di sopravvivenza, gli strumenti ci sono già: l’Ape sociale per esempio permette il prepensionamento a persone che svolgono lavori gravosi. Siamo pronti a mettere a disposizione le nostre banche dati e il lavoro dei nostri attuari per identificare le carriere lavorative con speranze di vita più basse».
Con l’operazione Ape sociale l’Inps ha dimostrato di essere in difficoltà. Perché?
«Con l’Ape abbiamo rispettato le scadenze e varato una circolare a mezzanotte, poche ore dopo l’uscita del decreto. Ma è vero che la macchina è sotto pressione. Bene ricordare che l’Inps non eroga solo pensioni ma più di 400 altre prestazioni e che continua ad acquisire nuove funzioni, dall’Ape volontaria al reddito di inclusione. In questo quadro ha visto ridursi sistematicamente il personale per il blocco del turnover che di fatto si protrae da quindici anni. Dal 2012 abbiamo subito un calo del personale di circa il 13 per cento mentre le prestazioni che gestiamo aumentano. Abbiamo cercato di reggere a tutto, migliorando l’efficienza, riducendo le assenze, aumentando la produttività. C’è un limite a quello che si può fare in questo modo e personale stressato difficilmente può migliorare la qualità del servizio. Ogni nuovo compito ci viene assegnato con la formula “senza oneri aggiuntivi” quindi senza darci le risorse umane per affrontarlo. Ma solo l’Ape sociale ha richiesto il lavoro di 900 funzionari con laurea per tre mesi a tempo pieno».
Cosa serve allora?
«Servono assunzioni. A novembre si aprirà un concorso per circa mille giovani con laurea magistrale e altri requisiti qualificanti, dando valore alla formazione, alle prove scritte, alla conoscenza dell’inglese. Ma non bastano ancora, abbiamo chiesto almeno altre 660 assunzioni il cui costo siamo in grado di sostenere con i risparmi che possiamo realizzare avendo un personale più giovane e molto qualificato ».
Tornando all’adeguamento, quanto pesa in questa vicenda il potere di veto dei sindacati?
«I sindacati ormai si battono solo per far aumentare la spesa pensionistica. Non difendono i salari che, tra l’altro, contribuirebbero a pagare le pensioni. Sembrano seguire le stesse logiche del ciclo politico dei parlamentari. Con il loro comportamento stanno minando alle basi il sistema pensionistico, mettendo a grave rischio gli stessi pensionati. I pensionati hanno un bisogno disperato di più giovani che lavorino con salari più alti e di immigrati regolari che versino i contributi. In nome e per conto dei pensionati dobbiamo concentrare l’attenzione sull’ingresso regolare e a tempo indeterminato nel nostro mercato del lavoro».
Repubblica – 27 ottobre 2017