Ministro, le ricostruzioni dicono che nel suo partito si ragiona sull’ipotesi di presentare direttamente in Parlamento l’autonomia differenziata come disegno di legge del Pd se manca l’intesa nella maggioranza. È una strada percorribile?
Il Pd ha una visione chiara sul tema, aiutato anche dal fatto che Zingaretti ha una visione di insieme delle Istituzioni ed è anche un presidente di Regione, ma continuiamo a impegnarci perché sia un lavoro di tutto il governo. Il testo è sul tavolo del consiglio dei ministri e delle forze di maggioranza. M5S e Leu stanno studiando in queste ore le loro proposte tecniche e si tratta di contributi assolutamente accettabili. Aspettiamo le proposte di Italia Viva. Bisogna però definire tempi certi, qualche giorno, perché costruire una cornice che mette insieme autonomia e perequazione con un fondo da 3,6 miliardi in dieci anni, ma destinati ad aumentare almeno di dieci volte appena il sistema va a regime, per le aree interne, la montagna e il Sud è un’occasione per tutti. Il Pd farà la mediazione fino all’ultimo momento utile: poi, se qualcuno vorrà assumere scelte diverse la strada maestra del Parlamento è sempre pronta.
Ma non è paradossale che non si trovi un’intesa nella maggioranza dopo aver ottenuto l’unanimità delle Regioni, dove è forte anche la presenza della Lega?
L’accordo con le Regioni è stato possibile perché si sono fidate dello Stato. E da questa fiducia ritrovata voglio ripartire, non ho alcuna intenzione di portare avanti proposte a maggioranza che vadano contro questa o quella Regione. Anche perché i presidenti di Regione sono persone elette direttamente da milioni di cittadini, e io ho grande rispetto per loro. Poi se si va in Parlamento a fare leggi senza calcolarne l’impatto su chi le deve applicare si finisce per fare solo delle norme bandiera. Ricordo che in discussione ora non ci sono le intese, ma un’autodisciplina che le Regioni hanno accettato di darsi per rispettare integralmente la Costituzione, con il massimo della trasparenza e della concertazione possibile.
Tra legge quadro e intese, però, il percorso per arrivare all’attuazione è lungo e complesso. Non è troppo ambizioso per una maggioranza che litiga quasi ogni giorno?
Questa domanda va posta ai leader dei partiti alleati, perché il Pd ha idee molto precise. È vero che il progetto è ambizioso, ma noi non stiamo al governo per tirare a campare.
Ma l’ambizione deve fare i conti con una quotidianità complicata, come mostra anche il fatto che ci sono voluti due consigli dei ministri per approvare un decreto inevitabile per la Popolare di Bari, peraltro con un maquillage per travestirlo da progetto strutturale di una Banca d’investimento per il Sud.
Che sia un decreto per salvare la Popolare di Bari mi pare abbastanza evidente. A differenza di altri casi non stiamo però intervenendo su una banca priva di fondamentali, tanto è vero che l’operatività dell’istituto va avanti e attende con tranquillità il Fondo interbancario.
Ma quello di Bari è davvero un caso di «fallimento del mercato»? Questa sua definizione ha creato parecchia polemica.
Ho visto, e ho visto che Renzi l’ha anche rilanciata su Twitter. Gli consiglio maggiore cautela con i retweet. Anni fa ha accusato la mia proposta di Web Tax di essere un feticcio che avrebbe chiuso l’Italia in un recinto. Il tempo ha dimostrato che non aveva ragione. Qualcuno dovrebbe rileggere Pareto meglio e studiare gli effetti del capitalismo digitale sui servizi finanziari e poi ne riparliamo
E nel merito?
La vicenda di Bari vede sicuramente acquisizioni sbagliate ed errori nella valutazione del merito di credito, ma il tema strutturale è un altro. Una banca tradizionale che lavora sul territorio oggi regge se non ha una fortissima innovazione tecnologica e non propone servizi evoluti? Penso di no. Ha senso quindi discutere di pubblicizzazione dei sistemi di pagamento? Penso di sì, anche perché non voglio assistere inerme al licenziamento di decine di migliaia di bancari resi inutili dalla tecnologia. Questo è o non è un fallimento di mercato? Discutiamone, almeno.
Dal canto loro i Cinque Stelle premono invece per pubblicare i nomi dei responsabili e dei beneficiari degli affidamenti che hanno scavato il buco nei conti della banca.
L’ho detto anche in consiglio dei ministri. Capisco l’effetto mediatico di certe dichiarazioni, ma se ci sono persone che hanno commesso reati i nomi li farà la magistratura, non i politici. Ai politici tocca il compito di ragionare sulle soluzioni, non quello di fare i Robespierre. Anche perché non so quanta gente possa avere i titoli per farlo, e dopo tutto Robespierre finì male.
Intanto però torna a salire la temperatura sulla commissione banche e sul totonomi per la presidenza.
La commissione non aveva senso l’altra volta, come avevo detto sgolandomi senza ovviamente essere ascoltato dall’allora segretario del mio partito Matteo Renzi, poi l’esperienza di Casini riuscì ad anestetizzare gli ardori di molti. Se ci deve essere una nuova commissione, proviamo a dargli un senso, evitando di umiliare fino in fondo la dignità del Parlamento. Commissione d’inchiesta su cosa? Si può indagare sull’evoluzione e sui problemi del sistema bancario degli ultimi anni, ma non si possono certo fare processi sommari a un’autorità indipendente.
Tornando in Puglia, nell’elenco degli affanni della maggioranza c’è anche Taranto. A che punto è il decreto sulla città?
Sono certo che il provvedimento ci sarà e si troverà il modo migliore per avviare gli investimenti necessari a rafforzare il tessuto socioeconomico di una città che ha dato molto all’Italia e dall’Italia non ha ricevuto altrettanto. In questo contesto all’Ilva deve rimanere il ciclo integrato dell’acciaio, perché l’idea di farla sfruttare alla multinazionale di turno come un grande piazzale sul Mediterraneo dove arrivano i semilavorati di ogni parte del mondo sarebbe l’inizio della fine.
Anche su questo, la discussione con gli alleati, M5S in primis, non è semplice.
Ma questo è il tempo che ci è dato di vivere.