Trentacinque miliardi di euro per il passato, più tredici miliardi l’anno a partire dal 2016. Cifre rispetto alle quali il problema aperto sulle pensioni, e poi risolto dal governo, potrebbe dirsi quasi trascurabile. Il 23 giugno la Corte Costituzionale esaminerà i due ricorsi dei sindacati contro il blocco dei contratti nel pubblico impiego che dura dal 2010, e stavolta la posta in gioco è molto più alta.
I conti li ha fatti l’Avvocatura dello Stato presentando ieri alla Consulta una memoria, in vista dell’udienza di fine mese. «I rilevanti effetti finanziari derivanti dall’intervento normativo che si esamina sono evidenti. L’onere non potrebbe essere inferiore a 35 miliardi, con un effetto strutturale di circa 13 miliardi a decorrere dal 2016» si legge nella memoria.
I numeri sono stati forniti all’Avvocatura direttamente dalla Ragioneria dello Stato, anche se i sindacati parlano di cifre «gonfiate» (neanche troppo, se come dice la Confsal «nella migliore delle ipotesi saranno 30 miliardi»), come era stato fatto anche in vista della sentenza sulle pensioni sfavorevole al governo, costretto a mettere sul piatto 2,2 miliardi di euro. Ed è proprio quel precedente, la bocciatura del congelamento delle pensioni, a preoccupare l’esecutivo. A differenza della sentenza di febbraio sulla Robin Tax bocciata “pro-futuro”, in cui la Consulta ha tenuto in conto il nuovo articolo 81 della Costituzione che vincola all’equilibrio di bilancio, quella sulle pensioni di fatto lo trascura. Ed il suo presidente, Antonio Criscuolo, ha pure chiarito che non è compito della Corte, ma di altri organi dello Stato, garantire quel principio.
Il relatore della causa sul blocco degli stipendi nel settore pubblico sarà, tra l’altro, Silvana Sciarra, la stessa che aveva curato la causa sulle pensioni. Il collegio dei giudici, che in quel caso si era diviso esattamente a metà, con la causa sbloccata dal voto del presidente che vale doppio, potrebbe però essere diverso. Dei quindici membri del collegio, attualmente ne mancano due, ma Camera e Senato si riuniranno l’11 giugno in seduta comune per procedere alla loro elezione. Non è escluso che la nomina arrivi in tempo utile per integrare il collegio entro il 23 giugno. E magari determinare equilibri differenti.
In ballo c’è il congelamento della contrattazione nel pubblico impiego, stabilita nel 2009 da una norma del governo Berlusconi, con Giulio Tremonti ministro dell’Economia, e da allora sempre prorogata dai governi successivi. L’ultimo aumento contrattuale per i dipendenti pubblici risale al 2006, grazie al blitz notturno di Gianfranco Fini, allora vice presidente del Consiglio, che sbloccò la trattativa concedendo aumenti medi di circa il 6%. Da allora, più nulla. Le risorse per i rinnovi non sono comunque stanziate nel bilancio pubblico. Solo dal 2019 sono previsti 420 milioni per l’indennità di vacanza contrattuale. Il Documento di Economia e Finanza di aprile sconta l’assenza di risorse per i rinnovi contrattuali fino a tutto il 2021. Sarebbero undici anni. (Mario Sensini)
Ecco gli Avvocati che difendono lo Stato. Tra conti e conflitti
L’Avvocatura dello Stato ha calcolato che sbloccare i contratti dei dipendenti pubblici, fermi per legge dal 2010, costerebbe almeno 35 miliardi. I sindacati si sono indignati, lasciando intendere che questa stima agghiacciante servirebbe a impressionare i giudici della Corte costituzionale, chiamati fra due settimane a esprimersi sul ricorso del Confsal. Per la Consulta è una seconda decisione cruciale per i conti dello Stato, dopo quella sulle pensioni.
E qui non può che saltare agli occhi una differenza fondamentale fra due vicende apparentemente simili, considerato che si tratta in entrambi i casi di stabilire la costituzionalità o meno di un blocco dell’adeguamento all’inflazione per assegni erogati dalle casse pubbliche. La differenza consiste nel fatto che stavolta l’Avvocatura ha fatto i conti, mentre nel caso delle pensioni la stima (5 miliardi a regime) non era stata forse presentata con la medesima enfasi, tanto che era sfuggita ai più.
Forse perché nel frattempo è cambiato l’Avvocato generale? Michele Di Pace ha lasciato il posto a Massimo Massella Ducci Teri, un burocrate di lungo corso che a giudicare dal suo sterminato curriculum ha trascorso un sacco di tempo a consigliare ministri (dai socialisti Lelio Lagorio e Carmelo Conte a Tiziano Treu, fino a quel Luigi Mazzella proveniente dalla medesima Avvocatura e a Giuliano Urbani) ed è stato anche presidente dell’Aran, l’organismo che ha proprio il compito di stipulare i contratti dei dipendenti pubblici. Dunque ha anche le competenze per fare quei calcoli che invece nel caso delle pensioni non sarebbero stati fatti.
Naturalmente si possono fare soltanto supposizioni sulle ragioni che hanno originato questa curiosa differenza di approccio. Ma se proprio dobbiamo esprimere un’opinione, è certamente meglio che i giudici costituzionali siano messi nelle condizioni di conoscere le conseguenze delle loro decisioni piuttosto che il contrario.
Detto questo, si impone qualche riflessione anche sull’Avvocatura. Dove certe prese di posizione non sono sempre ineccepibili. I suoi componenti sono dipendenti dello Stato a tutti gli effetti, equiparati ai magistrati. E alcuni di loro ci tengono ad esserlo al punto da aver innescato una gragnuola di ricorsi alla magistratura amministrativa contro la norma che li manda in pensione a settant’anni senza la proroga concessa ai giudici. Cause nelle quali lo Stato ha opposto av- vocati dello Stato ricorrenti ad avvocati dello Stato difensori.
Pur essendo dipendenti pubblici, tuttavia, sono al tempo stesso anche considerati alla stregua di liberi professionisti: fino a qualche tempo fa, oltre allo stipendio, godevano della piena riscossione delle parcelle pure per le cause con spese compensate.
Essendo poi equiparati ai magistrati e agli alti burocrati pubblici, ecco gli incarichi esterni. Alcuni di loro, come dimostra il caso dell’attuale avvocato generale, sono ingaggiati negli uffici legislativi ministeriali, nei gabinetti dei ministri o utilizzati come consiglieri delle cariche politiche. Ed è comprensibile, trattandosi di tecnici in qualche caso di livello elevato.
Ma capita pure che si ritrovino fra le mani alcuni incarichi particolari che li espongono a conflitti d’interessi semplicemente formidabili. Prendiamo la storia mai chiarita degli arbitrati, ovvero quella forma di giustizia privatistica esercitata però da pubblici amministratori per dirimere le controversie fra Stato e privati. Vi immaginate un collegio arbitrale con un avvocato dello Stato che deve giudicare una causa fra una impresa privata e lo stesso Stato difeso da un avvocato dello Stato, e prende una decisione contraria allo Stato? Non è fantascienza. È successo davvero, evidentemente grazie a una clamorosa confusione di regole. Mentre è fin troppo chiaro che non dovrebbe succedere affatto.
Il Corriere della Sera – 5 giugno 2015