di Stefano Simonetti. Il Sole 24 Ore sanità. Con l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del Ddl “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario” è iniziato il percorso che dovrebbe portare a quanto viene fortemente perseguito da alcune Regioni del nord e di cui si parla da anni. Il testo è composto da dieci articoli ma va detto subito che tale percorso appare estremamente complicato e sarà molto lungo: ma, evidentemente, quello che in questo momento si imponeva come prioritario era l’effetto-annuncio a dieci giorni dalle elezioni regionali. All’interno dell’operazione, la Sanità riveste un ruolo molto rilevante, anche se in realtà non viene mai nominata nell’articolato.
Si è parlato molto di cosa sia l’autonomia differenziata e spesso in modo equivoco e poco chiaro, anche per mascherare le opposte convinzioni. In termini molto semplici e lineari, si può dire che l’autonomia differenziata non è altro che il riconoscimento, da parte dello Stato, dell’attribuzione a una Regione a statuto ordinario di autonomia legislativa sulle materie di attuale competenza concorrente e in tre casi di materie di competenza esclusiva dello Stato. Nella Relazione illustrativa si parla di 23 materie che, in buona sostanza, sono le 20 materie indicate nell’art. 117, comma 3 più quelle di cui al comma 2, lettere l) – limitatamente al giudice di pace – , n) e s). Ecco spiegato, allora, perché la Sanità è coinvolta: la settima delle 20 materie ex comma 3 è proprio la “tutela della salute” che passerebbe sotto la competenza esclusiva della Regione. Non che le altre sia meno delicate e importanti, basta rilevare che c’è anche quella denominata “professioni”: ma come si può pensare che la normativa ordinistica o deontologica e gli stessi contenuti della professione per medici e infermieri siano diversi da una Regione all’altra?
Molti sono stati i commenti a caldo da parte degli addetti ai lavori e sono tutti negativi, dai sindacati alla Fnomceo fino all’intervento della Fondazione Gimbe che ha elaborato un completo dossier sulla problematica; lo stesso ministro della Salute ha dichiarato di credere che il “ministero debba comunque avere un ruolo di indirizzo”.
Proviamo ad analizzare questo disegno di legge, ovviamente nella parte che potrebbe riguardare la Sanità.
Uno degli obiettivi dichiarati del Ddl è quello di “favorire la semplificazione delle procedure, l’accelerazione procedimentale, la sburocratizzazione”, come si legge nell’art. 1. Ebbene, se si scorre il testo del successivo art. 2 ci si deve chiedere se si tratta di uno scherzo o di una cosa seria. Infatti, per giungere alla definizione dell’intesa finale tra Governo e singola Regione, il citato art. 2 prevede in sequenza una ventina di passaggi formali: deliberazione della Giunta regionale, parere degli enti locali, trasmissione al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, valutazioni dei Ministeri competenti, avvio del negoziato con la Regione richiedente, schema di Intesa preliminare della Presidenza del Consiglio, relazione illustrativa, passaggio in Conferenza Unificata per il parere, trasmissione alle Camere per gli atti di indirizzo, eventuale ulteriore negoziato, stesura dello schema definitivo dell’Intesa, approvazione dello schema da parte della Regione, deliberazione della PdC sullo schema definitivo, predisposizione del Ddl di approvazione, sottoscrizione finale dell’Intesa, trasmissione del testo e della relazione alle Camere per la conseguente deliberazione.
Uno dei momenti topici del Ddl è quello dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni), vero oggetto misterioso che dovrà garantire l’equilibrato e corretto ricorso al processo di autonomia. Per la Sanità in verità cambia poco perché erano già presenti i Lea (livelli essenziali di assistenza) e sembra fin d’ora che i nuovi Lep avranno lo stesso enorme difetto: quello di esser difficilissimi da definire e da esigere in modo oggettivo e universale e, soprattutto, che non sono completamente finanziati. I Lea sono le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale. Attualmente i Lea sono previsti dal Dpcm 12 gennaio 2017 e sono soggetti a periodico aggiornamento; sono centinaia, suddivisi in tre grandi ambiti: prevenzione, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera. Tutte le Regioni devono garantire ai propri assistiti le prestazioni e i servizi inclusi nei Lea. Inoltre, ciascuna Regione, a condizione che si trovi in condizioni di equilibrio economico finanziario, può decidere di ampliare l’assistenza garantita ai propri cittadini residenti destinando proprie risorse ai cosiddetti “livelli ulteriori”, che vanno ad aggiungersi ai livelli essenziali. Le Regioni che si trovano in condizioni di disavanzo strutturale e che hanno sottoscritto un Piano di rientro dal deficit, non possono erogare “livelli ulteriori”; ad oggi sono sette le Regioni in piano di rientro, naturalmente tutte del centro-sud. E, a questo punto, si pone il primo grande interrogativo riguardo alla Autonomia differenziata. Nell’art. 8 del Ddl si legge “dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Orbene, è impensabile che qualcuno abbia più soldi senza che qualcun altro ne abbia di meno e non ci vogliono gli economisti per capirlo. Come colmeranno il gap oggi esistente Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Puglia e Sicilia? Consideriamo altresì i dati attuali. Più o meno la spesa sanitaria pubblica relativa all’intero Paese si attesta intorno ai 2.147 euro pro-capite. Prendiamo ora i dati relativi alla spesa pro-capite a carico dello Stato di quattro Regioni significative: Lombardia (2.148 euro pro capite), Veneto (2.186 euro pro capite), Campania (2.001 euro pro capite) e Sicilia (2.057 euro pro capite). Gli importi sono ricavati dai dati ufficiali del Mef e sono ovviamente grezzi perché vanno integrati con le risorse stanziate direttamente dalle Regioni, con la presenza degli stranieri temporaneamente presenti, con i dati della mobilità sanitaria e anche con la spesa privata, la cosiddetta out of pocket. In ogni caso, appare significativa la differenza che esiste tra le quattro regioni considerate.
Ma c’è una considerazione da fare a monte delle analisi sul Ddl. Siamo così sicuri che l’autonomia differenziata non esista già? Nel 1999 il Dlgs 229/1999, il cosiddetto decreto Bindi, cercò di imporre una centralità alle determinazioni dello Stato, introducendo nel decreto 502 del 1992 un art. 19 fortemente “centralista” nel quale si ribadiva che “le disposizioni del presente decreto costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione”. Ma le vicende successive hanno attenuato questa impostazione consentendo una maggiore autonomia. Infatti, con sentenza n. 354/1994 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 2, nella parte in cui qualifica per le regioni a statuto speciale come norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica le disposizioni ivi indicate, e non solo i principi da esse desumibili. Infine, nel 2001 è stato aggiunto un comma 2-bis secondo il quale non costituiscono principi fondamentali, ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione, le materie della costituzione delle aziende ospedaliere (art. 4, comma 1-bis) e delle sperimentazioni gestionali (art. 9-bis).
Chi ha impedito a quasi tutte le Regioni di adottare modelli organizzativi profondamente diversi tra di loro ? Dalle Asst e Ats lombarde alle aziende provinciali del sud, dalle tre sole aziende territoriali della Toscana alle nove del Veneto che ha un territorio meno esteso, per arrivare alle aziende uniche (ospedaliero/universitarie/territoriali) del Friuli – unica Regione che le ha istituite – sembra di avere davvero 21 servizi sanitari; si, 21 perché anche tra le due Province autonome esistono notevoli differenziazioni. Cosa ha ostacolato la scelta politica di aver costituito in metà delle Regioni italiane un ente sovraziendale per la gestione unitaria e trasversale di molte funzioni aziendali, in particolare di natura tecnica e amministrativa? Estar, Azienda Zero in Veneto e Puglia, Arcs, Acss, Alisa, Azienda regionale Lazio.0 sono tutte evidenti manifestazioni di autonomia gestionale già esistente da tempo, come altri aspetti quali, ad esempio, la formazione complementare degli Oss in Veneto, lo psicologo convenzionato di base in Campania o la gestione accentrata dell’emergenza/urgenza in Lombardia, Lazio e Sardegna. Per non parlare del Direttore assistenziale istituito lo scorso anno dall’Emilia-Romagna, prima e, per ora, unica realtà in cui esiste il “quinto” direttore aziendale.
Ma un aspetto di forte “autonomia” riguarda proprio la maggiore risorsa del Ssn, cioè il personale. Tutte le Regioni sono in gravi difficoltà nel reclutare medici e i concorsi spesso vanno deserti. Orbene, se Veneto, Emilia-Romagna e Liguria aumentano l’importo delle prestazioni aggiuntive previste dal vigente Ccnl da 60 euro l’ora a 100 euro, mettono in atto una forma di dumping del reclutamento che altro non è che la realizzazione della “autonomia” in questione. Stesse considerazioni si possono fare riguardo alle risorse aggiuntive regionali (Rar) che in molte aziende del centro sud non sanno nemmeno cosa siano. C’è anche un altro aspetto molto delicato in tema di retribuzioni. I rinnovi contrattuali quasi sempre ormai fissano incrementi retributivi in valori monetari assoluti ma non è sempre stato così, perché almeno fino al 2004 si ricorreva ad incrementi percentuali che, ovviamente, premiavano le Regioni e le aziende più ricche. Facciamo un esempio. Se in un Ccnl si legge che il fondo “è incrementato a decorrere dal 1 gennaio 2001, in ragione d’anno, di una quota pari allo 0,32 % del monte salari annuo calcolato al 31 dicembre 1999”, significa che se il fondo in questione è di 1.000 (valore del tutto ipotetico) l’aumento consiste in un importo tarato su di un monte salari sostanzioso ma se tale parametro – come in quasi tutte le Regioni del centro sud – è decisamente inferiore, l’incremento è gioco forza più basso. Questa ricchezza “esponenziale” si è storicizzata nel tempo e ha generato grandi disuguaglianze salariali, sia per il comparto che per la dirigenza.
Un ulteriore, recentissimo esempio di “gabbia salariale” lo possiamo ritrovare nel Ccnl del comparto del 2 novembre scorso. Come è noto, il contratto collettivo doveva disciplinare l’indennità di Pronto soccorso per la quale la legge 234/2021 aveva stanziato 63 mln in modo indistinto. Le parti negoziali si sono trovate in evidente difficoltà per la mancanza di dati certi e affidabile, per cui non hanno saputo fare di meglio che ripartire l’importo complessivo in ragione del monte salari delle singole Regioni. Prendiamo come esempio gli importi attribuiti a due Regioni grandi e importanti, ma molto diverse: Lombardia e Campania. Alla prima sono stati assegnati 7.285.632 euro mentre alla seconda 2.914.005 euro. Secondo la Tabella G – basata, come detto, sul monte salari – il rapporto tra le due Regioni è di 0,4; se si procedesse in ragione degli accessi annui al Pronto soccorso, il rapporto sarebbe di 0,8. Inoltre, è difficile comprendere come ad una Regione che ha 5.624.420 abitanti venga assegnato un importo molto inferiore a quello di Regioni decisamente meno popolose. Non vorrei fare polemiche sterili, ma il criterio del monte salari premia nettamente le regioni più ricche, e questo con le criticità lavorative e lo stress del Pronto soccorso non c’entra francamente nulla. Per fare un esempio concreto, due ospedali con dati simili come gli Spedali civili di Brescia (58.024 accessi annui) e il Santobono di Napoli (52.547 accessi annui) riceveranno dalle rispettive Regioni importi molto diversi a fronte di un carico lavorativo per gli operatori sostanzialmente uguale.