Il Senato ha negli ultimi giorni dato semaforo verde al Dl sull’autonomia differenziata delle Regioni, che adesso passa all’esame della Camera, con il Governo che preme per una sua rapida approvazione. Dalla salute, all’istruzione, alla cultura, alla tutela dell’ambiente, all’energia, ai rapporti con l’Unione Europea sono tante le competenze che verrebbero essere trasferite alle Regioni, in caso di approvazione.
Le Regioni a statuto ordinario potranno dunque chiedere più autonomia allo Stato su 23 materie, sulla base di quanto sancito dagli articoli 116 e 117 della Costituzione. Un’autonomia però che, almeno per quanto riguarda le materie inerenti ai diritti civili e sociali, sarà comunque subordinata ai Lep, i Livelli Minimi di Prestazione, da stabilire a livello centrale e che ogni Regione dovrà impegnarsi a garantire. Ma ad oggi i Lep, gli standard minimi dei servizi, non sono stati definiti, se non in campo sanitario. E ogni caso, l’autonomia differenziata prevista da questa legge quadro potrà essere concretamente implementata solo quando verranno garantiti i finanziamenti per i Lep, il cui reperimento appare ancora in alto mare.
Nell’impianto della legge dunque, i Lep servirebbero a garantire che tra le varie Regioni non vi siano differenze abissali tra la qualità dei servizi offerti e che ci sia sempre un minimo garantito. Ma tutto ciò è davvero realizzabile? E se invece questa ulteriore devolution ampliasse le differenze tra le Regioni, cosa accadrebbe in sanità? Fortune Italia ne ha parlato con un esperto in sanità pubblica, il professor Walter Ricciardi, Ordinario di Igiene all’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma.
Dai Lea, ai Lep. Cosa cambia?
“Nel primo caso – puntualizza Ricciardi – parliamo di prestazioni solo sanitarie, nel secondo anche di tante altre competenze, che come ‘livelli essenziali’ dovranno essere garantite a tutti i cittadini italiani indipendentemente dalla Regione di residenza. Questo è stato già definito da tempo per la sanità, mentre non ancora per gli altri settori. I Lea vengono aggiornati con una certa periodicità, anche se sempre in ritardo, rispetto all’evoluzione della medicina e sono prestazioni che riguardano un ampio spettro dalla prevenzione, alla diagnostica, alle terapie, alla riabilitazione. I Lep invece allargano questo spettro al sociale, ad esempio all’assistenza agli anziani, alle persone disabili, allargando le prestazioni. Come debbano essere aggiornati e definiti e come debbano essere finanziati però è un grande mistero. Perché di fatto in questo momento non c’è né una loro definizione, né tanto meno una loro quantificazione. E anche nella legge in approvazione sono previsti tre anni per definirlo”.
E chi si sta occupando di questo? “Chi debba fare queste specifiche in ambito socio-sanitario non è ancora stato deciso – dice l’esperto – I Lep vanno individuati, definiti, bisogna trovare un accordo tra lo Stato e le Regioni. Ma poi soprattutto bisogna finanziarli. Ad una valutazione spannometrica, i Lep nella loro globalità, potrebbero arrivare a costare qualcosa come 100 miliardi, cifre non alla portata del nostro Paese”.
Una lista chiave
Quali dovrebbero essere nell’ambito dei Lep le prestazioni irrinunciabili? “Andranno stabilite di volta in volta e aggiornate, nel caso della Sanità, alla luce e in funzione delle evidenze della medicina e della scienza. Per quanto riguarda gli altri settori, andranno valutate sulla base delle esigenze e dei diritti dei cittadini, alcuni dei quali (quelli dell’istruzione, dei trasporti, ecc. ) sono sanciti dalla Costituzione. Mentre per i Lea abbiamo una tradizione e addirittura un meccanismo codificato di aggiornamento, nel caso degli altri Lep è tutto da inventare”.
A livello Europeo c’è qualche linea di indirizzo o qualche Stato all’esperienza del quale ispirarsi? “No, noi siamo i primi – afferma Ricciardi – perché di fatto ci stiamo avventurando in un terreno riformatore al buio, soprattutto in ambito sanitario. In Europa ci sono sostanzialmente due modelli, quello nazionale, tipico della Francia e quello federale, proprio della Germania. In Francia tutto viene definito a livello nazionale e realizzato a livello locale; mentre invece in Germania è tutto definito a livello regionale, il governo federale in sanità non ha nessun potere perché questo ce lo hanno i Land. Tra gli estremi del nazionalismo centralista e del federalismo totale, ci sono tutta una serie di stadi intermedi. Ma nessuno si sta avventurando come nel caso nostro a delegare, senza che ci sia un governo federale, la responsabilità per materie molto complesse alle Regioni”.
E questa potrebbe rappresentare una criticità per l’Italia? “Si, la vedo come una criticità soprattutto alla luce dell’esperienza maturata in sanità. Nel nostro Paese – ricorda Ricciardi – la sanità è stato il primo settore francamente devoluto con la modifica del titolo V, nel 2001. E noi abbiamo visto i risultati di questa devoluzione. Che, appunto, non è federalismo, ma semplicemente delega alle Regioni di una serie di poteri. E quello che è successo è stata una netta divaricazione delle prestazioni che ha portato a fenomeni quali la differenza dell’aspettativa di vita”.
Cittadini di serie A e di serie B
“Oggi nascere al Sud – continua lo specialista – significa avere un’aspettativa di vita di quasi 4 anni inferiore rispetto al Nord. E questo perché, nonostante non ci siamo spinti troppo avanti, come accadrà con i Lep, i Lea non sono stati applicati in maniera omogenea in tutte le Regioni e soprattutto non è stata applicata un’adeguata gestione alla complessità della sanità. E dunque – dice Ricciardi – se l’esperienza per una cosa molto meno ‘spinta’ è questa, figuriamoci cosa potrà accadere affidando totalmente alle Regioni le competenze in 23 materie. Significherà, non solo dividere il Paese, ma spezzarlo in maniera definitiva. Quello che sta avvenendo non credo rispecchi appieno la volontà della maggior parte dei cittadini italiani, ad eccezione magari di quelli che vivono nelle Regioni più ricche, destinate forse ad andare sempre meglio”.
L’appello
E allora cosa bisognerebbe fare? “Un appello alle forze politiche a ragionare, a non fare questo salto nel buio che di fatto porterà alla frammentazione del Paese, peraltro in un momento in cui le sfide globali – economiche, climatiche, geopolitiche, belliche – sono enormi e possono essere vinte solo con un’aggregazione che, per lo meno, ci dia una dimensione almeno europea. Invece la spaccatura, la frammentazione, la divisione non ci creerà altro che marginalità e irrilevanza”.
Delle linee di indirizzo centrale potrebbero mitigare questa situazione? “L’esperienza di vent’anni ci dice che a poco serve che lo Stato suggerisca delle norme, se poi non ha la possibilità di intervenire laddove le Regioni risultino inadempienti. Questo comporta che questo tipo di verifica sia solo formale, mentre nella sostanza si determinerà un abbandono delle Regioni più indietro, che non hanno nessuna possibilità di recuperare rispetto a quanto faranno le regioni più ricche”.
Ci fa degli esempi di cosa potrebbe accadere? “Se le Regioni ricche, che se lo possono permettere, stabiliranno degli stipendi più alti per i medici e gli infermieri, accanto a condizioni di lavoro più attrattive, noi assisteremo ad un esodo massivo degli operatori sanitari, che peraltro sono già pochi, dal Sud al Nord. E quindi, quei milioni di cittadini che già fanno fatica ad accedere ai servizi, a quel punto o si recheranno a Nord, o dovranno far a meno di quel servizio. Questo si sta già verificando per migliaia di persone ma in futuro rischia di verificarsi per milioni di loro”, risponde Ricciardi.
Innovazione e diseguaglianze
“Stessa cosa potrebbe accadere con le innovazioni tecnologiche. Oggi – riflette l’esperto – stiamo assistendo a due rivoluzioni, quella della genetica/genomica e del digitale. È chiaro che sono tecnologie che si potranno permettere solo le Regioni ricche. Per cui si creeranno grossi divari nell’accesso a procedure innovative, sia di carattere diagnostico che terapeutico. Alcune Regioni che metteranno a disposizione dei cittadini farmaci innovativi, mentre altre non li potranno garantire. E nel caso di alcune patologie, i cittadini per avere dei farmaci dovranno trasferirsi o chiedere la residenza in altre Regioni. È già successo già con la devoluzione. Figurarsi con il regionalismo differenziato”.
“Infine, dobbiamo cercare di elaborare strategie al passo con le sfide dei tempi, che vedano l’Italia come Paese più attivo a livello europeo, dove si prendono delle decisioni. Non ci dimentichiamo che l’80% delle leggi e delle disposizioni di legge applicate in Italia, sono di derivazione comunitaria. L’Italia deve stare a quei tavoli insomma, dove si decide veramente il futuro del Paese. Ma come potrà esserci e con quale peso specifico se verrà frammentata in 21 staterelli?”, si chiede Ricciardi.
Autonomia differenziata in sanità, dai Lea ai Lep: cosa cambierà