E l’impatto sociale dell’aumento Iva, qualora fosse impossibile trovare le risorse per evitare del tutto il passaggio dell’aliquota dal 21 al 22%. E dunque cogliere l’occasione per fare quello che l’Europa chiede da tempo ai paesi membri: riordinare l’imposta sui consumi.
IN ALTRE parole, se il governo Letta non fosse in grado di reperire un miliardo per rinviare a gennaio il rincaro (dopo averlo già spostato da luglio al primo ottobre), potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di includere alcuni prodotti, oggi colpiti dal livello massimo dell’imposta, nel paniere agevolato del 10%. E di far comunque salire l’Iva su tutto il resto. Anche perché, fanno notare fonti dell’esecutivo, cancellare per sempre l’aggravio di un punto costa 4 miliardi l’anno. In questo momento tutti gli sforzi dei tecnici per trovare fondi è dirottato sull’Imu e anche su quel fronte sembra improbabile poter annunciare la totale abolizione (altri miliardi).
Il dossier Iva torna dunque d’attualità. Tra poco più di un mese, gli italiani faranno i conti con un carrello della spesa meno conveniente. Evidente il rischio di smorzare sul nascere i flebili accenni di ripresa autunnale. Se la settimana che si apre domani sarà dedicata soprattutto all’Imu — entro agosto servono 2,4 miliardi per abbuonare la prima rata — si torna anche a ragionare di aliquote Iva. Quella del 4%, più bassa del minimoeuropeo fissato al 5 per via di una deroga concessa all’Italia, è però blindata in quanto a composizione. I prodotti agevolati (latte, frutta, ortaggi, pane, pasta, giornali, libri, case non di lusso, apparecchi per disabili, etc) possono cioè essere sfoltiti, ma non accresciuti. E quello che esce dall’elenco non vi rientra più.
La vera osmosi dunque riguarda le altre due aliquote: quella del 10 e la più alta del 21%. Con una differenza, però. Mentre è possibile rincarare i prodotti tassati al 10% senza particolari limiti (ma assai poco probabile per carne, pesce, yogurt, uova, miele, riso, luce, gas, alberghi, ristoranti, medicinali, edilizia),portare invece — come potrebbe tentare il governo — alcuni beni o servizi dal 21 al 10% di Iva è vincolato da norme europee. In pratica, si può fare solo nell’ambito delle 18 macroaree fissate dalla direttiva Ue del 2006. Un processo di “sconto” — va detto — ampiamente usufruito dall’Italia. In altri termini, tutto ciò (o quasi) che poteva essere agevolato è già transitato nell’area del 10%. Anche in modo generoso. L’edilizia, ad esempio. Tutto il comparto è al 10%. Mentre l’Europa, in teoria, vi farebbe rientrare solo l’edilizia sociale. Per Bruxelles gli alberghi sono al 10%, i ristoranti no. L’Italia li considera entrambi agevolati. E cosìvia. Le logiche bizzarre esistono, però. Birra e acqua minerale se sono servite al bar sono soggette al 10% (è ristorazione). Se acquistate al supermercato, al 21%.
Un’operazione del genere — passare alcuni beni o servizi dal 21 al 10% — non avrebbe bisogno di assenso preventivo dell’Europa. Che però potrebbe chiedere di sopprimere le deroghe ritenute non idonee o promuovere, in casi spinosi, un’azione contro l’Italia presso la Corte di giustizia. D’altronde, nonostante sia annunciata da anni, la riforma europea dell’Iva tarda ad arrivare. Con il risultato che beni o servizi identici sono tassati in modo diverso neidiversi Paesi. In questa cornice caotica, il governo italiano proverà a giocare dunque la carta di un impatto più lieve dell’aumento Iva di ottobre.
Considerato, a questo punto, molto complesso da evitare. Anche perché più volte l’Europa ha raccomandato all’Italia di spostare il peso fiscale dal lavoro alla case e alle cose. Tradotto: cuneo fiscale più leggero, ma Imu e Iva eventualmente più pesanti. Nessuna speranza però di uno “sconto” per auto, scarpe, abbigliamento, compu-ter, tv, cellulari, benzina: sono e rimarranno al 21% (o 22 da ottobre).
Repubblica – 25 agosto 2013