Venticinque anni dopo un primo allarme, gli scienziati di tutto il mondo lanciano un secondo avvertimento all’umanità sullo stato del Pianeta.
Nel 1992 i premi Nobel riuniti nell’organizzazione non governativa «Union of Concerned Scientists» assieme a oltre 1.700 firmatari misero in guardia sul fatto che l’impatto delle attività umane sull’ambiente avrebbero probabilmente provocato «grandi sofferenze» e «danneggiato il Pianeta in modo irrimediabile».
Ieri, in una dichiarazione pubblicata sulla rivista scientifica americana Bioscience e Le Monde , oltre 15 mila scienziati di 184 Paesi valutano l’evoluzione della situazione dal primo appello del 1992, e le conclusioni sono che «presto sarà troppo tardi» per salvare la Terra.
«Dal 1992, con l’eccezione della stabilizzazione dello strato di ozono, l’umanità non è riuscita a fare progressi sufficienti nel risolvere i problemi ambientali nel loro complesso, e molti di loro si stanno di gran lunga aggravando — scrivono gli scienziati —. Particolarmente preoccupante è l’attuale traiettoria di un cambiamento climatico potenzialmente catastrofico, dovuto all’aumento del volume di gas a effetto serra provocati dai combustibili fossili, dalla deforestazione e dall’agricoltura (in particolare le emissioni legate all’allevamento dei ruminanti destinati al macello)».
Thomas Newsom, docente all’università australiana di Deakin, dice che «abbiamo studiato gli sviluppi degli ultimi due decenni analizzando i dati ufficiali, e presto sarà troppo tardi per invertire queste tendenze pericolose».
Dagli anni Novanta a oggi non sono mancati, ovviamente, gli interventi puntuali di moltissimi scienziati e esperti che hanno contribuito alla presa di coscienza sfociata negli accordi di Parigi del dicembre 2015 (firmati ormai da tutti i Paesi del mondo tranne gli Stati Uniti). L’appello pubblicato ieri però dà l’idea di un passo solenne dell’intera comunità scientifica, che ha il solo precedente nel 1992.
In questi giorni è in corso a Bonn la conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima (COP23) e in questa occasione ieri è stato pubblicato sulla rivista internazionale Earth System Science Data uno studio, realizzato dal consorzio Global Carbon Project, secondo il quale le emissioni di anidride carbonica nel 2017 hanno ripreso ad aumentare, dopo tre anni in cui erano rimaste stabili. In base alle proiezioni, il 2017 si chiuderà con un totale di 41 miliardi di tonnellate di CO2 disperse nell’atmosfera, ovvero un aumento del 2% rispetto al 2016.
Gli autori del rapporto Global Carbon Project sottolineano che la causa principale è legata alla Cina e all’«aumento del consumo cinese di carbone (+3%), petrolio (+5%) e gas naturale (+12%)». La Cina è il Paese che produce più anidride carbonica (10 miliardi di tonnellate) davanti agli Stati Uniti (5,3), all’Unione europea presa nel suo complesso (3,5), India (2,4), Russia (1,6) e Giappone (0,8). All’interno della Ue, a inquinare di più è la Germania seguita da Regno Unito, Italia e Francia.
I quindicimila scienziati, più che apocalittici, cercano di essere incoraggianti: «La diminuzione rapida delle sostanze distruttrici dello strato di ozono dimostra che siamo capaci di cambiamenti positivi, quando agiamo con determinazione». Seguono quindi 13 raccomandazioni per evitare, in extremis, il peggio. Tra le quali, preservare le foreste, promuovere un’alimentazione soprattutto vegetale, ridurre la crescita demografica, accelerare il passaggio elle energie rinnovabili.
Il Corriere della Sera – 14 novembre 2017