Il divario tra Nord e Sud investe le tasse universitarie, che a Parma toccano le stelle. L’associazione Federconsumatori accende i riflettori sui costi dell’istruzione in Italia. Un sistema in cui il figlio dell’operaio paga quanto quello del gioielliere. E per studiare in Italia si spende di più rispetto al resto d’Europa
Laurearsi al Sud conviene. Al Meridione conquistare il fatidico “pezzo di carta” è decisamente più economico rispetto al Nord, dove diventare dottori può costare un patrimonio. A fare i conti in tasca alle matricole è Federconsumatori, nel suo rapporto nazionale sugli atenei italiani. Dallo studio (che prende in esame cinque fasce di reddito-tipo) emerge un divario tra le due aree d’Italia: le università del Nord sono più care, in media, del 28,3%. Distanza che si fa ancora più evidente prendendo in considerazione l’ultima fascia, quella per i redditi più alti: le università del Nord risultano in questo caso più care del 68% rispetto a quelle del Sud, di conseguenza non dover dichiarare il proprio reddito (rientrando automaticamente nella fascia più alta) costa di meno al Sud.
Le più care. L’università più cara (prendendo in considerazione la prima fascia) è quella di Parma con una retta di 1005,87 euro annui per le facoltà scientifiche e di 890,05 Euro per quelle umanistiche, pari al 103% in più rispetto alla media nazionale. Al secondo posto si trova invece l’Università degli studi di Verona (con una retta annuale di 613,18 euro per le facoltà umanistiche e 671,22 per le facoltà scientifiche).
Le più economiche. La palma per gli studi meno dispendiosi va invece all’Università “Aldo Moro” di Bari, dove si applica un criterio di merito per calcolare la retta dovuta. Se uno studente dichiara un reddito minimo, ma ha una media bassa o è in ritardo con gli esami rispetto al piano di studi previsti per il suo corso di laurea, dovrà pagare tasse maggiori rispetto a un collega con lo stesso tenore di vita ma più diligente. Al secondo posto tra le meno costose c’è l’Alma Mater di Bologna, che per chi ha un Isee inferiore a 20mila euro applica tasse inferiori del 35% rispetto alla media nazionale. Dato interessante se si considera che l’ateneo bolognese è quello che meglio si classifica nei ranking internazionali. Complessivamente, rispetto al 2010, si registra una lieve diminuzione delle tasse universitarie per la 1 e la 2 fascia di reddito considerata (rispettivamente -1% e -4%), mentre i costi per gli studenti appartenenti alla 4 e la 5 fascia aumentano, rispettivamente, del +4% e del +10%.
Paradossi. Il dossier fotografa la realtà delle famiglie italiane, in base alle dichiarazioni del modello Isee. Risulta ad esempio che gioiellieri, albergatori e macellai (nuclei di seconda fascia con un unico reddito proveniente dal lavoro autonomo) pagano in media una tassa di 515,82 euro annui, esattamente come la famiglia monoreddito di un operaio non specializzato. “Anche qui, come in altri settori in cui si utilizza come parametro l’Isee, i figli dei gioiellieri pagano meno dei figli degli operai alla catena di montaggio”, denuncia Rosario Trefiletti, presidente Federconsumatori. “Questi dati – continua – se affiancati a quelli della crescente evasione fiscale e della diminuzione degli investimenti sulla pubblica istruzione, fanno emergere un quadro drammatico: infatti si andrà sempre più verso un aumento degli studenti che appartengono o dichiarano di appartenere alle prime fasce, e quindi una diminuzione delle risorse da distribuire agli studenti che realmente ne hanno bisogno”.
Il confronto con gli altri Paesi. Nel rapporto dell’OCSE “Education at a Glance 2010” a pagina 244 troviamo un confronto tra le tasse universitarie di diversi paesi. In particolare si legge che “Tra i paesi dell’Europa a 19 per i quali i dati sono disponibili, solo l’Italia, l’Olanda, il Portogallo e l’Inghilterra hanno tasse annuali al di sopra di 1100 dollari per studente a tempo pieno”. Tra le 14 nazioni considerate nello studio (Italia, Austria, Francia, Belgio, Spagna, Giappone, Finlandia, Islanda, Norvegia, Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Olanda e Svezia) il nostro paese si colloca al sesto posto come tasse universitarie, ma ultimo come percentuale di studenti beneficiari di contributi per diritto allo studio. Inoltre il fondo integrativo statale per le borse di studio è recentemente passato da 246 a 76 milioni (-69%,) equivalente al taglio di 45.000 borse su 150.000 erogate (che già coprivano solo l’82.5% degli aventi diritto). Dunque mentre le rette in Italia sono più alte di quelle di altri paesi europei, gli studenti meno abbienti non ricevono un aiuto rilevante a causa delle carenze strutturali di una politica per il diritto allo studio.
L’università italiana è di buona qualità. La ricerca italiana si colloca al settimo posto al mondo per volume totale di citazioni. Anche considerando il volume totale di pubblicazioni o “l’H-index” globale, l’Italia si posiziona sempre tra le prime dieci posizioni. Questa situazione è spesso chiamata “paradosso italiano”, come la definisce Marino Regini, prorettore dell’Università Statale di Milano e autore del libro “Malata e denigrata. L’università italiana a confronto con l’Europa”. Nel suo studio Regini afferma: “Considerando che l’investimento in ricerca e sviluppo, sia in termini assoluti che come percentuale del PIL, è minore dei paesi che ci precedono (Francia, Inghilterra oltre che Stati Uniti) si può concludere che l’efficienza del sistema universitario e della ricerca italiano è discreta”. E conclude: “Il vero svantaggio delle università italiane non risiede nella qualità della ricerca quanto nella bassa internazionalizzazione dei loro studenti e docenti”.
Repubblica.it – 3 ottobre 2011