Duro attacco di Bersani e D’Alema: “Basta spot e metodo Boffo” Poi la minoranza si spacca: 130 sì al premier, 20 no e 11 astenuti. E ora si profila un mini-ritocco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Oltre al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento discriminatorio (che il governo non ha mai messo in discussione), sarà previsto pure per i licenziamenti disciplinari senza giustificato motivo. È la novità che ha annunciato ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi
Matteo Renzi vince la sfida in Direzione sul Jobs Act, ora la battaglia si sposta in Parlamento. Il premier si augura che dopo una discussione che definisce «bella», ma che in realtà è stata una resa dei conti, alle Camere «si voti uniti». Difende il suo governo: «È contro la realtà continuare a dire che è solo slogan». Ne rivendica le scelte, a cominciare dall’abolizione dell’articolo 18.
Attacca «le responsabilità drammatiche dei sindacati» e dice che il Pd deve avere anche la rappresentanza degli imprenditori. Alla fine è provato. Una mediazione minimalista l’ha tentata. A sera fa capire che andrà avanti come un panzer. L’ok alla riforma del lavoro passa con 130 sì, 11 astenuti (parte di Area riformista, la corrente di Roberto Speranza) e 20 contrari tra i quali D’Alema, Bersani, Cuperlo, Civati, Fassina, D’Attorre.
Nel parlamentino del Pd va in scena uno scontro drammatico su articolo 18, identità della sinistra, rapporto con l’impresa. Il conflitto tra la “vecchia guardia” e Renzi ha toni mai raggiunti.
Eppure l’inizio della riunione è soft. Il segretario-premier si mostra determinato sull’abolizione dell’articolo 18: «No ai compromessi a tutti i costi, però questa è una riforma di sinistra, se la sinistra serve a difendere i lavoratori e non i totem, a difendere tutti e non qualcuno già garantito». Poi Renzi annuncia un incontro con i sindacati e fa delle aperture sul “reintegro” non solo per i licenziamenti discriminatori ma anche per quelli disciplinari. È una delle richieste della corrente dei “giovani turchi”, che infatti vota a favore della riforma. Quando Massimo D’Alema però prende la parola, denunciando che Renzi fa «molte parole senza fondamento» e rincara con l’accusa di una «oratoria non attinente alla realtà», condendo l’attacco con sarcasmo e ironie, il Pd si ritrova in piena burrasca. Una tempesta nel partito che cresce con l’intervento di Pierluigi Bersani. Dall’ex segretario dem un j’accuse: «Noi sull’orlo del baratro non ci andiamo per l’articolo 18. Ci andiamo per il metodo Boffo, perché se uno dice la sua, deve poterla dire senza che gli venga tolta la dignità». La platea renziana rumoreggia.
Roberto Giachetti contrattacca sul “metodo Boffo”, usato casomai – sostiene – contro Renzi da D’Alema con l’accusa al premier di farsi «istruire da Verdini». «Citami una frase mia…» ribatte Bersani. Brusio, commenti. Sarà poi Renzi a scherzarci su: «Io adopero casomai un metodo buffo…». Non basta ad alleggerire il clima. L’affondo di Civati è senza sconti: «Ho sentito Renzi dire cose di destra…». Cuperlo corregge Renzi: «Non sono 44 anni come i 44 gatti che non si tocca l’articolo 18 ma solo due». Fassina ammette che il momento è delicato e che il disaccordo con Renzi è totale. Lo spettro della scissione ritorna. Anche se tutti negano. Il ministro Poletti si mette d’impegno a spiegare il cambio d’epoca nel mercato del lavoro. Però la ricetta renziana ha contro i leader storici democratici.
Con l’apertura sui licenziamenti disciplinari il premier propone un mini-ritocco dell’art.18
E ora si profila un mini-ritocco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Oltre al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento discriminatorio (che il governo non ha mai messo in discussione), sarà previsto pure per i licenziamenti disciplinari senza giustificato motivo. È la novità che ha annunciato ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. L’obiettivo del governo in ogni caso resta quello di ridurre il più possibile la discrezionalità del giudice nei procedimenti. Proprio l’incertezza del comportamento dei magistrati di fronte a fattispecie identiche sarebbe — secondo l’esecutivo — il principale fattore di freno degli investimenti (italiani o esteri) destinati a generare nuova occupazione.
Molto dipenderà, dunque, da come la norma sarà scritta dal governo nei decreti attuativi della delega lavoro (il Jobs Act) per ora all’esame del Senato. Certo sembra possibile che l’impianto generale possa restare quello della legge Fornero. A prevederlo è stata ieri lo stesso ex ministro del Lavoro: «Non cambia nulla», ha detto Elsa Fornero. «Abbiamo già tolto al giudice — ha aggiunto — la possibilità di reintegrare in caso di licenziamento per motivi economici. L’apertura del premier, Matteo Renzi, sui licenziamenti disciplinari apre la strada a lasciare le cose come stanno dopo la nostra modifica all’articolo 18», ha concluso.
Provando a fare un po’ d’ordine, la possibilità di reintegro nel posto di lavoro dopo aver subìto un licenziamento senza giustificato motivo resterebbe in due casi: nel caso di licenziamento discriminatorio e in quello disciplinare. Non ci sarebbe più il terzo caso, previsto dalla legge Fornero, ossia la reintegra decisa dal giudice nel caso di licenziamento economico «manifestamente infondato», insomma quando vengano presentate motivazioni economiche solo per mascherare un licenziamento dovuto ad altre ragioni. Da quel che si capisce in questo caso scatterebbe un indennizzo monetario.
Non dovrebbe subire interventi la parte dell’articolo 18 riguardante il licenziamento discriminatorio, cioè quello provocato da ragioni politiche, religiose. Oppure dall’appartenenza a un sindacato o dalla partecipazione a uno sciopero. O, ancora, dal sesso o dall’età. O quelli decisi durante il matrimonio, la maternità e la paternità. In tutti questi casi di licenziamento spetta al giudice dichiararne la nullità e dunque determinare la condizione precedente, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro, con il pagamento di tutte le eventuali mensilità non corrisposte.
Per i licenziamenti disciplinari l’attuale normativa prevede il reintegro nel posto di lavoro anche con il pagamento di un risarcimento massimo di un anno di mensilità, quando il giudice accerti che il fatto non sussiste o perché il fatto può essere sanzionato in altro modo. In alter- nativa alla reintegra il giudice può stabilire il pagamento di un indennizzo pari a due anni di mensilità. Probabilmente il governo interverrà con una semplificazione delle procedure, riducendo (ma non sarà semplice) il ruolo del giudice e “tipizzando” il più possibile le fattispecie.
La decisione politica di ieri dovrà essere trasferita ai tecnici. Da oggi riapriranno il dossier. Ed è da capire anche se qualche modifica subirà pure la legge delega o la partita sarà tutta giocata con i decreti attuativi per il varo dei quali il governo ha comunque sei mesi di tempo dopo l’approvazione del Jobs Act.
Repubblica – 30 settembre 2014